Matteo Renzi tira dritto. Ieri sera si è dimesso andando al Colle e presentando la sua proposta, che è chiara e lascia il cerino acceso nelle mani delle opposizioni che hanno appena vinto il referendum: o si fa un governissimo con tutti dentro, oppure si va subito al voto dopo la sentenza della Corte costituzionale del 24 gennaio.

In mattinata era stata approvata, con la fiducia, la manovra economica. Più tumultuoso il passaggio nella direzione convocata nel primo pomeriggio e poi slittata alle 18: nessuna discussione e la seduta permanente - ma per ora silenziosa - in attesa di sapere che cosa deciderà Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica, che oggi pomeriggio inizia le consultazioni, non vorrebbe andare al voto, ma la proposta di Renzi lascia poco spazio alla possibilità di formare un governo che possa portare alla fine della legislatura. Anche perché a voler andare subito al voto ci sono anche i grillini che dopo aver attaccato duramente l’Italicum ora chiedono di estenderlo anche al Senato, sperando nello scacco matto. Ognuno pensa a sé, agli interessi del suo partito. La crisi si trasforma in un labirinto.

Insomma è come nelle matrioske. Fuori c’è Renzi. Togli il primo involucro e c’è ancora Renzi: più piccolo. Continui a sbucciare e la faccia non cambia, è ugualmente quella di Matteo. Fino a che arrivi all’ultimo e chi trovi? Sempre Renzi: solo piccolissimo. L’immagine rende bene quel che sta accadendo dopo il ceffone che gli italiani hanno rifilato all’ex sindaco di Firenze, quel 60 per cento di No al referendum costituzionale che ha affondato il mito del renzismo lasciando però lì a galleggiare il suo inventore. In altri termini la questione è l’assenza di alternative. Non ci sono per il Renzi che vince, men che mai per quello che perde. La politica italiana è una medaglia con due facce: solo che sono uguali. Il che comporta una domanda: Renzi si è dimesso, chi altri può succedergli se non lui stesso?

Beh, è un po’ più complicato. Intanto quale proposta politica presentare al capo dello Stato dopo l’apertura formale della crisi, un partito serio lo discute prima che il premier dimissionario si rechi al Quirinale. Non è andata così. Alla Direzione del Pd, infatti, Renzi ha spiegato che o si aspetta la pronuncia della Corte costituzionale del 24 gennaio e si va al voto: alla Camera con il moncherino dell’Italicum che ne risulterà e al Senato con il Consultellum, altro moncherino ma stavolta del Porcellum, ideato dal leghista Calderoli. Oppure si deve fare un nuovo governo appoggiato sia da chi il referendum lo ha vinto sia da chi lo ha perso. Così le responsabilità (e le impopolarità) si suddividono e siamo tutti pari. Di tutto questo, tuttavia, il parlamentino Pd non ha dibattuto: ha preso atto e il confronto - che sarà comunque «duro», ha avvertito Renzi - è stato rimandato.

Quindi si torna al punto di partenza: quale alternativa mettere in campo nel luogo dove non ne esistono? Sono i paradossi in cui ci si imbatte quando si danno troppe cose per scontate e si vive alla giornata, ritenendo lo sforzo di lungimiranza non un atto di saggezza bensì una perdita di tempo. I problemi sul tappeto sono due, piuttosto intrecciati. Il primo. Come ha fatto sapere il capo dello Stato ( ma come anche il semplice buon senso suggerisce), non è idoneo votare con due sistemi elettorali diversi per due assemblee legislative dotate degli stessi poteri. Si rischia di produrre due maggioranze diverse e perciò l’ingovernabilità. Probabilmente Giorgio Napolitano l’ha spiegato bene a Renzi nel corso della « lunga telefonata » che hanno avuto: elezioni in queste condizioni « sono una cosa incomprensibile » , ha chiarito il presidente emerito della Repubblica. Di conseguenza, come ha fatto sapere il suo successore al Colle, bisogna “ armonizzare” i due sistemi tenendo conto della sentenza della Consulta del prossimo 24 gennaio ( se basterà). Fino a quel punto, le urne non si possono aprire e Mattarella, par di capire, non scioglie. Bene: chi armonizza? E’ il secondo problema sul tappeto. Teoricamente tocca al Parlamento; praticamente il governo interviene, anche a gamba tesa, vedi fiducia sull’Italicum posta da palazzo Chigi. Tuttavia perché un governo possa intervenire è necessario che sia nella pienezza delle sue funzioni, godendo del regolare avallo delle Camere.

Il punto perciò è: esattamente, quale governo? Prima di rispondere, un passo indietro. Se c’è una cosa difficilissima da fare è la riforma elettorale. Su di essa si scaricano le aspettative, le ambizioni, gli interessi di tutte le forze politiche. Quelle piccole, cercano un sistema che ne garantisca la sopravvivenza; quelle grandi uno che enfatizzi il loro potenziale di governo. Risultato: spesso si gira a vuoto; ci vogliono settimane o addirittura mesi per trovare la quadra e quando non si trova ci pensa la maggioranza di turno a forzare la mano. E’ successo con il Porcellum ai tempi di Berlusconi, è accaduto con l’Italicum di Renzi. In ogni caso, i tempi non sono brevi.

Torniamo al punto. Serve un governo, dunque, che esegua il compito di “ armonizzare”, senza il quale le urne non si aprono. Ma quale governo? Qui è l’apoteosi dell’alternativa che non ha alternative. Renzi ha spiegato ai quattro venti che lui è « diverso dagli altri » , che restare attaccato alla poltrona non è roba sua, che aveva promesso che se avesse perso il referendum avrebbe lasciato e che è deciso a mantenere l’impegno. Già, ma se non lui chi? Un premier che duri i mesi necessari per condurre in porto la riforma elettorale magari può provare piacere a restare per affrontare anche altre emergenze: i conti pubblici; le banche da salvare; gli immigrati da contenere. Sarebbe una alternativa a Renzi che lo stesso Renzi dovrebbe avallare. Difficile. E poi con quale maggioranza? Il premier uscente tutto vuole tranne che restare a rosolare a palazzo Chigi mentre le opposizioni, interne ed esterne, lo bersagliano. Perciò la maggioranza va allargata anche ad altri: per esempio a quelli che hanno votato No.

Non necessariamente tutti: basta l’ex Cavaliere. Che però se accettasse pagherebbe un prezzo assai salato: lo scompaginamento del centrodestra. Infatti mai Lega e Fdi sosterrebbero un esecutivo siffatto. E infatti Silvio, al momento, non ci pensa proprio. Allora dovrebbe restare Renzi, magari reincaricato da Mattarella. Ma, appunto, aveva giurato che se ne sarebbe andato. E poi rimane la questione dell’allargamento della maggioranza. Tradotto: senza Matteo - sia in qualità di premier che di azionista con golden share - il governo non si può fare. Però con le condizioni che pone non si può fare neanche con lui medesimo. Ergo, Mattarella non può che verificare l’insussistenza di una maggioranza e dunque decretare la fine della legislatura. E l’armonizzazione dei sistemi elettorali: che fine fa? L’alternativa priva di alternative è un labirinto senza uscita. E’ proprio lì che il presidente della Repubblica si appresta ad entrare: dovrà trovare anche il modo di uscirne.