Terremoto. Parola che non vorremo mai sentire. Improvvisamente tutto trema. In pochi secondi ci si accorge di quanto la nostra esistenza sia legata ad un filo. Di come questo filo possa inesorabilmente spezzarsi. Se abbiamo scampato il pericolo, immediatamente apprendiamo notizie della tragedia e ci informiamo su quanto accaduto. I mass media, giustamente, dedicano grande spazio al terribile evento. Dettagli dei crolli, numero di morti, di feriti, le dichiarazioni dei politici, le loro ennesime promesse di un'immediata ricostruzione, da troppo tempo smentite da quanto avvenuto in passato. Un vero e proprio bollettino di guerra che di ora in ora si aggrava, coinvolgendo sempre più persone e più territorio. Case, ospedali, scuole, alberghi sono oggetto di attenzione degli inviati speciali, che giungono sui luoghi del disastro per fornire notizie dettagliate sul dramma ancora in atto.Dall'informazione, salvo rare eccezioni, resta fuori solo una parte di cittadini a conferma dell'assoluta extraterritorialità del luogo in cui vivono. Mi riferisco ai detenuti, agli agenti di polizia penitenziaria, a tutti coloro che, per diverse ragioni, sono costretti a vivere dentro quelle mura che delimitano uno spazio ignoto e dimenticato. Eppure la terra ha tremato anche lì. Quei terribili interminabili minuti hanno stravolto anche la mente di chi, chiuso in pochi metri quadrati, non ha via di fuga, ma può solo gridare la sua disperazione chiedendo di aprire le celle. Richiesta vana. Prigioniera del sisma, anche la polizia penitenziaria tenta di gestire la situazione nel migliore dei modi. La mancanza di un piano di evacuazione, lascia gli stessi agenti privi di tutela, in balìa di quegli attimi di terrore in cui il desiderio di sopravvivenza entra in conflitto con il dovere di continuare a vigilare e tentare di salvare altre vite senza scampo."Ecco il tavolino trema. Il termosifone sembra una sonagliera. Ma c'è qualcosa di ancora più orribile: la porta della cella, chiusa, sbatte come se qualcuno vi si aggrappasse scuotendola. Il letto, alle mie spalle sbatte al muro. Capisco subito: è il terremoto. Al piano gridano: aprite! aprite! Una guardia dice che non ha disposizioni dal brigadiere. Capito? Ora sono certo di aver vissuto il massimo dell'angoscia: in carcere innocente, durante un terremoto" (Lettere a Francesca - Pacini Editore).Così Enzo Tortora descrive, in una lettera alla sua compagna Francesca Scopelliti, il terremoto in carcere. Le sue parole sono ancora attuali. La paura e l'indignazione di Tortora, sono le stesse che hanno provato i detenuti del Centro-Italia il 23 agosto scorso, rimasti nelle loro celle a guardare terrorizzati le mura e i cancelli tremare. Un' ulteriore pena suppletiva non prevista da alcuna Legge. Chi conosce il carcere sa che, pur in presenza di un piano di evacuazione, mettere in sicurezza la vita dei detenuti, in caso di calamità naturali è impossibile nella maggior parte degli istituti. La mancanza di grandi spazi all'aperto e di un dispositivo che possa aprire tutte le celle contemporaneamente, rendono praticamente impossibile qualsiasi operazione del genere. Ancora una volta, il condannato è abbandonato dallo Stato che, se legittimamente può togliergli la libertà - in alcuni casi sbagliando - deve poi garantire una detenzione dignitosa e sicura.Nonostante il degrado generale dei nostri istituti di pena, giunge dal carcere la solidarietà per le vittime del terremoto, a riprova della grande generosità che caratterizza sempre coloro che soffrono. In alcuni istituti i detenuti, commossi dalle atroci sofferenze che hanno colpito gli abitanti del centro-Italia, hanno versato piccole somme, sul conto corrente dedicato dalla Croce Rossa al sisma. Un atto che ha un enorme significato simbolico, rimasto privo di riscontro mediatico, come tutto ciò che potrebbe destare una maggiore attenzione e disponibilità dell'opinione pubblica verso il pianeta carcere, che non è un corpo estraneo del cosmo, ma parte della Terra, che la Legge ci chiede di salvare.