Saulo di Tarso è il mio santo prediletto. A quest’uomo, in origine spietato persecutore di cristiani, si deve un contributo determinante nell’aver trasformato il cristianesimo in religione universale. Se lo fossi non avrei dunque alcun imbarazzo a proclamarmi fulminato sulla via di Damasco, come vorrebbero i miei critici, i pubblicani Cicchitto e Calderisi.Purtroppo nel mio caso non è così. Non è stata una folgorazione ad aprirmi gli occhi e a dimostrare quanto, fino ad allora, fossi stato accecato.Èstato, piuttosto, l’esercizio cocciuto della ragion politica a farmi vedere come, gradualmente ma inesorabilmente, la riforma della Costituzione abbia "cambiato verso" (uso un linguaggio renziano per esser certo di venire compreso dai miei interlocutori).Questo percorso ho cercato di ricostruirlo con la maggiore precisione possibile nel volume Perché è saggio dire no (ed. Rubbettino), scritto con il Presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida: un altro che come me sin dal primo giorno ha avuto la ventura di seguire la sorte della riforma.Dunque: non posso cavarmela invocando la conversione salvifica e debbo dispormi ad affrontare il processo di fronte al sinedrio.Grazie al cielo, un errore dei miei accusatori mi viene in soccorso. Debbo constatare, con una certa sorpresa, che Peppino e Fabrizio, nel formulare la loro accusa di incoerenza, non hanno avuto la mia stessa precisione. Non solo, infatti, sorvolano sull’impegno di Renzi, comunicatoci a più riprese da Alfano, a rivedere la legge elettorale alla luce della più generale riforma (impegno disatteso ponendo la fiducia alla Camera dei deputati). Non solo dimenticano di dire che, in un intervento in aula, affermai chiaro e tondo che il combinato disposto tra riforma costituzionale e riforma elettorale, nelle condizioni politiche date, avrebbe prodotto un risultato inaccettabile (argomento che in seguito, sempre in aula, sarebbe stato affrontato anche dal Presidente Napolitano). Sostengono addirittura che, al momento del voto finale sulla riforma, alla chetichella mi sarei allontanato dall’aula senza proferire verbo, sottraendomi a qualsiasi spiegazione e commento.Il resoconto stenografico del Senato del 19 gennaio 2016 (seduta numero 562) provvede a smentire Fabrizio e Peppino. Se avranno la bonomia e la pazienza dileggere quel discorso, vi troveranno in nuce tutti gli argomenti poi sviluppati nel già citato pamphlet. In un processo penale, quest’errore costituirebbe “la prova regina” che manderebbe assolto qualsiasi imputato, figuriamoci in una polemica giornalistica tra amici.Debbo aggiungere che se la distrazione avesse riguardato il solo Cicchitto non me ne sarei meravigliato: è connaturata alla sua essenza. Simone Baldelli, in una felicissima imitazione, immaginava una telefonata di Fabrizio alla sua segreteria per chiedere dove lui stesso si trovasse! Da Peppino, invece, non me lo sarei aspettato: lui compulsatore indefesso di ogni testo che riguardi anche lontanamente la riforma; candidato evangelista nella ricostruzione delle gesta renziane per giungere all’agognata meta, quest’errore non avrebbe dovuto compierlo. Qualcosa deve averlo accecato. Forse la sua stessa immagine di adamantino e indefesso servitore del credo riformatore, riflessa nello specchio ogni mattina al risveglio.Peppino potrebbe obiettarmi che quel discorso - come altri del sottoscritto - non fosse degno di attenzione. Avrebbe qualche ragione. Ma allora è inutile scrivere due lunghe articolesse, approfittando della pazienza dei lettori del Dubbio! E’ questo un errore nel quale io non vorrei incorrere (anzi, perseverare): con Fabrizio e Peppino discuterei ad libitum, per l’affetto che ci lega e per il gusto del confronto con persone intelligenti e di indubbio spessore, ma ho idea che prima o poi il pur gentilissimo Sansonetti ci inviterebbe ad alzare il telefono o a vederci in pizzeria e a smetterla di risolvere le nostre diatribe sulle colonne del suo giornale. Prima di chiudere, tuttavia, un’ultima risposta la debbo ai miei cortesi e simpatici amici che mi hanno degnato di cotanta attenzione.Personalmente uso il fioretto perché è l’arma con la quale mi trovo meglio e, forse, la più utile alla causa comune. Non ho nessun imbarazzo, però, a stare dalla stessa parte di quanti usano la clava o tirano mazzate "alla cecata". E’ propria della competizione referendaria, che prevede un Sì o un No, la formazione di compagini disarmoniche.Aggiungo che l’imbarazzo, semmai fosse esistito, si è ulteriormente affievolito dopo le nomine Rai di qualche giorno fa. Lì è stata usata la bomba atomica. Se fosse accaduto in vigenza di un governo di centrodestra, avremmo avuto le barricate per le strade e qualche pubblica crocifissione. Meglio stare dalla parte delle cerbottane che di quanti, ogni giorno di più, si asserragliano nel Palazzo.Nella foto: un particolare della Conversione di San Paolo del Caravaggio