La morte del mafioso Bernardo Provenzano, detenuto in regime di 41 bis nonostante le gravissime condizioni di salute, che ne causavano uno stato di totale incoscienza, ha posto fine alle sofferenze che la sua famiglia sta provando da alcuni anni.Perché, è bene precisarlo, in questo specifico caso erano i veri destinatari del particolare regime sono i suoi famigliari, costretti per la restrizione delle visite.E i famigliari, in quanto tali, ossia persone a lui legate da vincoli di sangue e affetto (e non in quanto eventuali correi di eventuali reati), non hanno alcuna colpa da espiare.Per chi non lo sapesse, il regime del 41 bis (e molti addetti ai lavori, purtroppo, non sapendolo, esprimono opinioni svincolate dai fatti), oltre a una serie di misure che rendono la condizione carceraria obiettivamente disumana e degradante, prevede un limitatissimo numero di visite mensili, anche nei confronti di un moribondo.Dal punto di vista del detenuto Provenzano il regime carcerario era indifferente. 41 bis, detenzione ordinaria, detenzione domiciliare. La sua collocazione sarebbe stata sempre e comunque un letto di ospedale. Senza contatti con l’esterno. Impediti dalle sue patologie, non dalle norme o dalla sorveglianza.Tali condizioni di salute di Provenzano avevano indotto due delle tre Procure procedenti nei suoi confronti a chiedere, invano, la revoca del 41 bis.E anche la terza Procura, quella di Palermo, inizialmente contraria alla revoca, immediatamente dopo la sua morte, per bocca del Sostituto Procuratore Generale Nico Gozzo, ha espresso un concetto assolutamente condivisibile: lo Stato deve marcare la sua differenza dai criminali che intende punire.Diversi Tribunali, dinanzi ai quali si celebravano processi a carico del Provenzano, hanno stabilito la sua incapacità di partecipare coscientemente al dibattimento, sospendendolo come prevede la legge.Lo Stato ha invece ridotto uno strumento eccezionale (che si pone obiettivamente in contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) a strumento di lotta simbolica nei confronti di un’icona dell’Antistato, perdendo l’occasione di dimostrarsi superiore.Lo disse, e ancora lo ricordo, pronunciando una sentenza, il miglior magistrato che abbia mai incontrato, Antonio Diella, che nell’assolvere un capomafia per un cavillo, volle precisarne ad alta voce il motivo: perché NOI rispettiamo la legge. Avrebbe potuto condannarlo, il boss, “forzando” entro una certa misura la legge, per dimostrare la sua forza. In quel modo, assolvendo, dimostrò la sua indubbia superiorità.Lo ha scritto, con la consueta lucidità, Roberto Saviano: la mafia ci ha privato anche dell’umanità «la sola cosa che ci era rimasta», e che ci differenzia dalla violenza criminale delle mafie.Quale occasione migliore per parlare del 41 bis se non la morte di Provenzano.Uno tra i più efferati criminali che mai abbia solcato la nostra terra. Le cui immonde azioni restano indifendibili (a differenza dei suoi diritti).Quale migliore occasione, se non questa, per denunciare l’abuso di uno strumento eccezionale, nato per troncare i rapporti tra i capi e le cosche, e che invece oggi viene concesso in abbondanza in assenza di una sentenza definitiva.Quale migliore occasione per riaffermare, perché ce n’è davvero bisogno, il ruolo dell’Avvocatura, quella colta, libera e consapevole. Che è pronta a battersi per l’ultimo dei diritti dell’ultimo degli essere umani, anche quando tale aggettivo sembra esagerato.C’è chi mi ha contestato che questa era una buona occasione per tacere. Elogiando la cultura del silenzio, senza accorgersi che proprio il silenzio, nella forma dell’omertà, è invece un elemento costitutivo dell’associazione mafiosa.Quel silenzio, che significa appunto non dire cose scomode, inseguendo la pancia del popolo, lo lasciamo a chi cerca consenso, ai garantisti pelosi, o ai giustizialisti irosi.L’Avvocatura, la giovane avvocatura, che mi onoro di rappresentare, sui diritti, in particolare quelli fondamentali, farà sempre sentire la sua voce.*Presidente dell’Aiga - Associazione Italiana Giovani Avvocati