Ok, aspettiamo venerdì, ennesimo appuntamento per la resa dei conti nella Direzione del Pd. Sapendo già però che non succederà niente. Per il semplice motivo che la leadership di quella che ancora è la maggiore forza politica italiana non è contendibile. Non più, almeno. E comunque non ora. In altri termini il nodo vero è che non esistono alternative concretamente praticabili a Matteo Renzi. Ce ne saranno al congresso, sicuramente. Ma anch’esse con possibilità di riuscita vicine allo zero. Nel senso che se il premier vince il referendum, è pura fantascienza immaginare una sua sostituzione: al contrario, è verosimile prevedere un’accelerazione dei tempi sia congressuali (peraltro già ravvicinati, lo ha chiarito Renzi stesso) che, probabilmente, elettorali. Se invece perde, non c’è problema: lui stesso ha già annunciato ai quattro venti che lascerà la poltrona di palazzo Chigi e, pare, anche la politica.Dunque per tornare a venerdì, con ogni probabilità la Direzione sarà occasione per un ampio ventaglio di toni da sfogatoio accompagnati da ristretti margini di novità: e quanto tutto questo possa rianimare esausti militanti e storditi elettori, non si fatica ad intuirlo. Il che tuttavia non rende più agevole il percorso di qui al referendum; nè funziona da balsamo per le ferite inferte dalla costituency (anche e soprattutto propria); nè infine scioglie i nodi che il segretario deve affrontare e risolvere nel rapporto con le articolazioni territoriali, sia istituzionali che di partito.Che poi, a ben vedere, sono combinazioni diverse di uno stesso caleidoscopio, riconducibili al medesimo interogativo: come si fa ad invertire il mainstream che ha preso a soffiare di traverso nelle vele renziane?L’analisi del presidente del Consiglio è nota. Il voto amministrativo si è spalmato su situazioni diverse e dunque non è riconducibile ad unitarietà d’analisi. Se proprio si vuole trovare un filo conduttore comune, si è trattato non di un voto di protesta bensì dettato dalla volontà di cambiamento. E poiché nulla cambia più della riforma costituzionale che: a) taglia i seggi, b) riduce le spese della politica, c) modernizza le modalità operative del Parlamento, è sicuro che chi anela al cambiamento non può che schierarsi con il Sì. Con le conseguenze politico-organizzative già dette e così sintetizzabili: se le cose stanno in questo modo, non ce n’è per nessuno.Giusto. Ma stanno in questo modo? Forse. Ma forse anche no. Due sono gli elementi di problematicità. Il primo. Il senso di novità e di cambiamento che Renzi ad un certo punto più di tutti ha incarnato, per una pluralità di motivi sta venendo meno. Uno su tutti: le promesse sono state tante, le cose fatte pure ma la gente non le ha percepite sulla propria pelle. Al contrario, vede l’impoverimento (economico) e il senso di precarietà (sociale) accrescersi. Il che fa montare la rabbia. Che a sua volta deve indirizzarsi verso qualcuno o qualcosa: chi governa è strutturalmente nel mirino. Detta in termini appena più sofisticati, la realtà italiana ed europea - e il mal comune non è mezzo gaudio nè funge da consolazione - è marchiata dal fatto che, come spiega un politico di lungo corso come Pierluigi Castagnetti, «la condizione reale della vita delle persone sta tornando ad essere un motore politico di straordinaria forza». In particolare nelle cabine elettorali, dove si mischiano pulsioni diverse e contraddittorie però tutte indirizzate verso chi detiene il potere. E’ la forza del vaffa.Come può Renzi contrastare un simile piano inclinato? L’arma migliore (ed anche unica) è l’azione di governo. Per intenderci: un sollievo tributario vero e non la cancellazione di Equitalia, obiettivo di lunga e difficile realizzazione. Oppure un incentivo concreto al lavoro che passa anche questo attraverso il taglio del cuneo fiscale. Insomma uno choc.Ce ne sono i margini?Il secondo. La gente vive di simboli e di valori, in primis in politica. Quelli incarnati dalla sinistra di cui Renzi è in Italia il portabandiera, si sono via via indeboliti fino a scolorirsi del tutto. In compenso, è cresciuta la quota di populismo con forti spruzzate di demagogia che mano a mano si è posata come un mantello di piombo sulle spalle di praticamente tutti i protagonisti politici. Ma il grillismo da palazzo Chigi può competere con quello urlato nelle piazze da chi ne detiene il copyright? La risposta è fin troppo ovvia.Di fronte ad un simile quadro, in molti si fa strada la tentazione di tagliare tutti nodi attraverso lo splitting della carica di premier in modo che non coincida più con quella di leader di partito e, in parallelo, attraverso la modifica della legge elettorale con l’assegnazione del premio di maggioranza alla coalizione e non più alla lista. Basterà? In realtà proprio l’Italicum sarà oggetto di due diverse pronunce della Corte Costituzionale a ottobre, più o meno in concomitanza con il referendum. Se fossero rintracciati profili di incostituzionalità, ne verrebbe fuori un moncherino come accadde al Porcellum. In quel caso, il ripristino del meccanismo che porta il nome dell’attuale capo dello Stato potrebbe funzionare da panacea. Ma allora dovrebbe tornare in auge il patto del Nazareno, considerato che assai difficilmente i Cinquestelle diranno sì alla cancellazione di un sistema che allo stato li vedrebbe vincenti.In ogni caso è davvero difficile che l’opinione pubblica si appassioni a simili schermaglie. Per cui il punto di fondo resta lo stesso: la rabbia popolare, la paura di tanti dell’impoverimento progressivo ed irrefrenabile, la perdita della speranza. Nei cento giorni che separano dalla consultazione popolare, per Renzi il fantasma da scacciare è questo. Chissà se e come lo affronterà venerdì.