E adesso cosa deve fare Matteo Renzi: lasciare la segreteria del partito come gli chiede la minoranza interna? O caricare il lanciafiamme, come ha già annunciato? O infine ricalibrare la sua strategia, magari modificando atteggiamenti, parole d’ordine, alleanze? «I ballottaggi hanno risentito di problematiche locali e una lettura nazionale è difficile. Tuttavia se si vuole trarre una indicazione complessiva bisogna dire che il consenso che in alcune città ha premiato i Cinquestelle non incarna la protesta bensì la voglia di cambiamento», è stato il commento di palazzo Chigi. Rinviando quel che riguarda le questioni di partito alla Direzione di venerdì.In un caso e nell’altro viene da dire che è troppo e troppo poco, contemporaneamente. La verità è che il voto di domenica costringe il premier a giocarsi tutto in poco più cento giorni, ossia da qui al referendum costituzionale di ottobre. Dopo le amministrative, infatti, il calendario politico non prevedeva altri appuntamenti elettorali fino alla naturale scadenza della legislatura nel 2018.M<+tondo_giust>a aver enfatizzato e personalizzato così fortemente il passaggio referendario - facendolo diventare «la madre di tutte le battaglie» - ha assegnato ad una consultazione popolare che aveva lo scopo di consentire agli elettori la pronuncia sul merito delle modifiche alla Costituzione votate dal Parlamento, il ruolo di catalizzatore definitivo di tutte le tensioni, aspettative, ritorsioni in campo. Ed è difficile contestare che, numeri alla mano, il capo del governo arriva a quello spartiacque con alle spalle un mainstream sfavorevole. Ma anche con la necessità di correggere alcune analisi precedenti e altre fatte a caldo: troppo o troppo poco, appunto.La prima correzione Renzi l’ha fatta subito e da solo. Nonostante il rinnovato richiamo al carattere locale del voto, infatti, il presidente del Consiglio non ha potuto negare la realtà, e cioè che da molte parti del Paese sale una spinta anti-governativa tutt’altro che trascurabile: guai a minimizzarla. La seconda correzione strategico-tattica riguarda il tema tanto caro della rottamazione. Ci volevano più volti nuovi, ha chiosato il premier, forse riferendosi ai posti in cui il Pd ha perso. Solo che in quelli dove ha vinto, almeno nei principali come Milano e Bologna, di volti nuovi non ce n’erano, non potendo annoverare in quella categoria nè Beppe Sala né tantomeno il riconfermato Virginio Merola.La terza correzione concerne la voglia di vedere all’opera Raggi e Appendino in contesti molto difficili (soprattutto la prima), per testare la sbandierata ma al momento unicamente supposta, capacità di governo dei Cinquestelle. Solo che cento giorni sono pochini per un bilancio. E poiché il voto referendario arriva ad ottobre è complicato immaginare che la luna di miele dei grillini con i tanti che li hanno votati sia a quel punto bell’e esaurita. Se così non sarà, vorrà dire che il vento favorevole continuerà a soffiare alle loro spalle. Magari spingendosi fin dentro le urne referendarie.Ultima correzione. E’ risaputo che, salvo colpi di scena, nella capagna elettorale per il referendum Renzi si impegnerà personalmente, intonando il refrain per cui chi vuole il cambiamento non può che votare Sì e chi invece si orienta sul No predilige la conservazione. Solo che i ballottaggi squadernano che allo stato la voglia di cambiamento la interpretano assai più i Cinquestelle che non il simbolo del Pd o il profilo tv del premier. Le affermazioni di ieri farebbero intendere che il presidente del Consiglio, nonché leader del partito di maggioranza relativa, su quel terreno intenda cimentarsi alla grande. Presumibilmente puntando a recuperare alla sua causa le moltitudini che per inseguire il cambiamento hanno segnato sulla scheda Raggi, Appendino o anche De Magistris. Il mantra renziano è noto: se sul serio si persegue il cambiamento non si può che essere d’accordo con la riforma costituzionale. Per cui i tanti che hanno votato i partiti di opposizione, al referendum possono tranquillamente schierarsi con il via libera alla riforma costituzionale. Però è innegabile che da domenica scorsa quel mantra Renzi dovrà recitarlo da posizioni di debolezza. Per intenderci: il cambiamento lo dovrà inseguire invece che esserne testimonial indiscusso.Di fatto la migliore arma, sia operativa che mediatica, che ancora rimane nella mani del capo dell’esecutivo è l’azione di governo. La medesima che, in verità, nelle urne dei ballottaggi l’ha azzoppato ma che può ancora riservagli soddisfazioni. E’ un crinale assai stretto perché le condizoni economiche non consentono molti margini di manovra. Ma uno sforzo straordinario sul fisco per esempio, o anche un intervento più ampio sul lavoro soprattutto giovanile, come pure misure a favore delle pensioni, sono un buon atout in grado di modificare l’atteggiamento degli elettori.Ma non c’è dubbio che fondamentale diventerà l’approccio politico complessivo. In primis risolvendo le questioni interne al Pd, appeasement o lanciafiamme che sia. E poi avviando un confronto chiarificatore con gli alleati. Tra i tanti arrivati in queste ore, ci sono da decrittare i segnali giunti dal Nuovo centrodestra. «L’uomo solo al comando non funziona più», ha tagliato corto Maurizio Lupi. Mentre Angelino Alfano insiste ad annunciare per l’autunno una importante novità politica.Certo, ci sarebbe sempre Berlusconi. Che al Nazareno c’è andato ed ha firmato un patto, poi stracciato. Il centrodestra è un campo d’Agramante, ma in mezzo a tanti flutti l’ex Cav ha tenuto dritta la barra e si è schierato con il No. Fargli cambiare idea appare mission impossible.