Da San Pietroburgo, dov’è in visita da Vladimir Putin, Matteo Renzi spiega che bisogna costruire ponti «perchè sono più le ragioni che ci uniscono che quelle che ci dividono». Concetti che le opposizione dentro al Pd anelerebbero sentir ripetere anche al Nazareno. Resteranno disillusi: le parole del premier riguardano il necessario dialogo tra la Ue e la Russia. Per le minoranze, infatti, l’unico ponte che che Renzi immagina è quello levatoio. E proprio la definitiva riscrittura dei rapporti interni al partito di maggioranza relativa è una delle conseguenze che scaturirà dal voto dei ballottaggi.Non sarà certo l’unica. Perché nonostante i ridimensionamenti cercati o sperati e la derubricazione a semplice voto locale per la scuola di sindaci, quello di domani è un voto che comunque consegnerà agli italiani una geografia politica profondamente mutata e gravida di nuovi assetti. La valenza politica dell’attuale tornata amministrativa è innegabile e anzi, lungi dallo sfarinarsi, con il passare dei giorni si è notevolmente accresciuta.Domenica sera gli elettori andranno a dormire certamente conoscendo i nomi ed i volti dei nuovi sindaci delle principali città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste. Ma soprattutto avranno contezza da un lato dei nuovi rapporti di forza (o almeno di parte di essi) tra i principali partiti; e dall’altro della potenza - intatta o intaccata - della calamita del consenso renziana. Sono in parecchi, oltre ovviamente ai candidati alle poltrone di primo cittadino, a giocarsi parecchio nelle urne. Ma in fondo che rischia di più è proprio l’inquilino di palazzo Chigi. Non per gli equilibri nazionali, in questo Renzi ha ragione: non esistono alternative al suo governo e perfino una dèbacle non è scontato provocherebbe sconquassi. Il motivo vero della fibrillazione è un altro, più insidioso. Quello di domani - e Renzi lo sa così bene che molte delle sue mosse vanno lette in quell’ottica - non è altro che il primo tempo di un match che vedrà svolgersi la seconda e decisiva parte a ottobre, nel referendum costituzionale sulle riforme. Andata e ritorno di una partita secca, senza possibilità di rivincita. Ecco perché i ballottaggi sono scivolosi: una cosa è sapere che parti in vantaggio magari di un paio di gol; un’altra completamente diversa è se i gol li hanno fatti i tuoi avversari e dunque devi rimontare mentre sugli spalti il nervosismo cresce e spunta pure qualche fischio. Se i candidati pd alla fine si ritrovassero a mani vuote, sarebbe il carniere dell’intero partito a soffrirne. E il suo leader potrebbe subire il contraccolpo della perdita del tocco magico, lo stesso che lo ha innalzato a vette di voti mai raggiunte prima da un esponente di sinistra. La minoranza lo aspetta al varco. E lui non vede l’ora di azzerare un dissenso che lo azzoppa, ne appanna l’immagine, rende tortuosa la navigazione. La sovraesposizione mediatica non basta: ora serve uno scatto in avanti.Dunque Renzi rischia: ma non è il solo. Anche il centrodestra si gioca parecchio nell’unico luogo dove ha dimostrato di poter essere competitivo: Milano. E anche Bologna, seppur in tono minore. Il modello meneghino - dove nella stessa metà campo ci sono tutti: dalla triade Berlusconi-Salvini-Meloni all’Ncd di Alfano con l’aggiunta del civismo di Passera - è stato il mantra mormorato da tutti i rappresentanti del moderatismo e della destra italiana. Se prevale, troverà immediati imitatori. Se naufraga, bisognerà ricominciare daccapo. Anche se a ben vedere il copione più sapido del centrodestra è un altro: quello che ha visto vice-leader o aspiranti numeri uno essere costretti a recitare a soggetto, senza copione. Con il monumentale ex Cav costretto in ospedale per complicazioni cardiache, diversi tra loro hanno provato a mandare in scena una rappresentazione priva del protagonista: anche questo un primo tempo, o se si preferisce prova generale dello spettacolo che potrebbe essere allestito in un prossimo futuro. Meglio dirlo subito: non è andata un granché bene, e i pochi, timidi, applausi sono stati presto subissati dai “buu” di disapprovazione. Però non è stato inutile: piaccia o no comunque il futuro è lì, e prima o poi bisognerà farci i conti. Però, però... Chissà se alla fine quel cuore così sincopato non abbia fatto battere di commozione anche quello degli elettori.Meno degli altri, ma qualcosa rischiano anche i Cinquestelle. E’ il rischio dei favoriti che devono vincere per forza e soprattutto vincere bene. Poi ci sarà la prova vera, quella di governo. Anche nel loro caso, la rappresentazioni sui teatri di provincia non è che abbiano entusiasmato: il salto sul palcoscenico Capitale potrebbe provocare qualche inciampo. E poi si sa: il successo provoca imitazione. E dagli imitatori bisogna guardarsi. Per esempio c’è quel Giggino De Magistris che non contento di bissare il successo a Napoli vuole stravincere innescando un movimento a livello nazionale d’intesa con i grillini. Che però non ci stanno: «La sua è una leadership personale, non ci interessa», taglia corto Roberto Fico.