«Il 31 gennaio 1969, giorno della sparizione del ragazzo Lavorini, era un venerdì, l’antivigilia della prima sfilata del carnevale di Viareggio, famoso in tutto il mondo e molto caro ai viareggini». Comincia così il paragrafo dedicato al caso Lavorini nel libro Il pistarolo di Marco Nozza, che seguì il caso dall’inizio alla fine. Nozza fu uno dei pochi giornalisti che provò subito a inquadrare l’episodio in una cornice “politica” mentre quasi tutte le testate – 27 trasmissioni televisive, 300 passaggi radiofonici, 30 inchieste di rotocalchi, e 22 inviati speciali dei maggiori quotidiani che scrissero in media 85 articoli ciascuno – si gettavano sugli aspetti morbosi della pedofilia e dell’omosessualità. È anche che non eravamo abituati.Un mese prima, la notte di Capodanno tra il 1968 e il 1969, giovani del movimento studentesco pisano avevano manifestato davanti alla Bussola al grido di «Lasciamo ai padroni lo champagne, noi abbiamo i pomodori! ». Doveva cantare Shirley Bassey – era stata la voce della colonna sonora di Goldfinger, uno dei film più riusciti di James Bond – quella notte alla Bussola, il locale più di moda della Versilia, per aspettare il nuovo anno, roba di lusso, insomma. Ci furono cariche, quella notte, e scontri su scontri tra dimostranti e poliziotti; gli studenti lanciavano ortaggi, oggetti, e sassi. Tra loro c’erano un paio di ragazzini che poi diventarono abbastanza famosi. Uno si chiamava Massimo D’Alema, e aveva diciannove anni. L’altro era più gradicello, si chiamava Adriano Sofri e di anni ne aveva 26. Poi i carabinieri avevano sparato. A altezza d’uomo. Ci furono diversi feriti. Quella notte, una pallottola colpì alla schiena un ragazzo di Pisa, Soriano Ceccanti, diciassette anni, che è rimasto su una carrozzella per tutta la vita. Il clima divenne cupo, i presagi sempre più neri. Nessuno sapeva cosa poteva accadere, ma tutti si aspettavano qualcosa. È anche che non eravamo abituati.Non eravamo abituati a quel livello dello scontro sociale. Non eravamo abituati al primo rapimento a scopo di estorsione, al primo kidnapping. Perché questo fu il caso Lavorini.Ermanno Lavorini esce di casa alle due e mezza del pomeriggio sulla sua bicicletta rossa nuova fiammante. Ha dodici anni, un ragazzino lindo, tenuto come una statuina di porcellana dai genitori. Il papà, un uomo robusto, faccia contadina, l’aria di uno che s’è fatto da solo, mani grosse di quelle su cui i sensali delle fiere si sputavano prima di darle a stringere e stipulare un patto, aveva lavorato come un mulo girando mercati di paesi e cittadine, era stato anche a Milano vendendo biancheria – aveva guadagnato, ora aveva un bel negozio di stoffe nel centro di Viareggio e sopra ci aveva costruito un palazzo, dove abitava. Lei, una sciuretta, minuta, appartata. Insieme sempre, lavorando duramente, e passando da una relativa povertà a una relativa agiatezza, non si erano mai sposati, magari l’avrebbero fatto un giorno.Oltre a Ermanno avevano un’altra figlia, Marinella, vent’anni circa, che lavorava in negozio. Al ragazzino, lo tenevano come al riparo da ogni cosa: temevano sempre che questa loro condizione di “non sposati” potesse – siamo sempre maledettamente in provincia, dove ognuno sa i fatti degli altri e ne mormora, anche solo per passare il pomeriggio – essergli rinfacciata, si sa come siano crudeli i ragazzini a quell’età. Alle tre, come ogni pomeriggio, le saracinesche del negozio si sollevano. Alle quattro, arriva la prima telefonata della mamma, Ermanno aveva detto che si sarebbe assentato solo mezz’ora ma non è rientrato. Marinella dice che starà per tornare. Alle quattro e mezza, una seconda telefonata della mamma, stavolta allarmata, Ermanno non ha tardato mai così tanto, per caso è passato in negozio, s’è visto? Anche Marinella comincia a agitarsi. Alle 17.40, un altro squillo, Marinella risponde e dopo pochi secondi lancia un urlo. «Ermanno rientrerà dopo cena – aveva detto una voce – dica al suo babbo di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia». Non eravamo abituati.Il caso esplode subito, arrivano i giornali nazionali, la televisione, inviati speciali, scrittori. Il telegiornale fa due collegamenti al giorno per trasmettere servizi di pochi minuti. Il Viminale invia poliziotti speciali, i carabinieri mettono in campo il colonnello De Julio, comandante della legione dei carabinieri di Livorno, che era stato il braccio destro di De Lorenzo, all’epoca del piano Solo (il tentativo di golpe del 1964).Si imbocca la pista del rapimento, si pensa che debbano esserci dietro professionisti di livello, si annaspa nelle indagini, non si viene a capo di nulla. Domenica 9 marzo, un maresciallo dell’Aeronautica, passeggiando sulla spiaggia di Vecchiano, scopre macchie di sangue nella sabbia. Ermanno Lavorini è sepolto lì sotto, a pochi metri dal mare. L’autopsia non fa luce sulle cause di una morte violenta. Però il ragazzino è tutto vestito, non ci sono segni di abusi. L’esame accerta solo che Ermanno era morto attorno alle 17 e 30 del 31 gennaio, tre ore dopo essere uscito di casa, dieci minuti prima della telefonata ricattatoria.A questo punto gli investigatori passano al setaccio ogni storia, ogni ipotesi, stringono le maglie intorno ai giovani amici di Ermanno, quei pochi che aveva – non c’è più timore di poter fare del male al ragazzino, è morto. Nella rete, rimangono tre ragazzi, Marco Baldisseri, sedici anni, Rodolfo Della Latta, detto Foffo, vent’anni, “l’adulto”, e Andrea Benedetti, detto “Faccia d’angelo”, quattordici anni. Sono tre ragazzi terribili, ma ce ne sono a decine come loro, sempre sulla strada, nei bar a giocare a flipper, un giro dedito ai furti di motorini, al gioco, al sesso. Si vendono, nella pineta, agli adulti, ai “pervertiti”, agli omosessuali. È stato Baldisseri, il primo a crollare. Poi ha tirato dentro Foffo, che fa il becchino in una impresa di pompe funebri, e politicamente milita a destra, e il Benedetti. Marco ha confessato, ha litigato con Ermanno, gli ha dato un pugno, l’ha visto morire. C’erano anche gli altri.Alle 17 di domenica 20 aprile, il caso Lavorini – così viene comunicato alla stampa dal colonnello De Julio – è da ritenersi «definitivamente chiuso»: un sedicenne, Marco Baldisseri, ha confessato di aver ucciso Ermanno «per futili motivi». È proprio qui invece che comincia la girandola impazzita. Ogni giorno una bugia, una menzogna, quello che è bianco al mattino, diventa nero la sera. Baldisseri calca la mano sui motivi morbosi, sui pederasti, sugli adulti del giro della pineta. Qualcuno era presente alla morte di Ermanno. I nomi. I nomi. E quello, ne snocciola di nomi.Il primo a cadere è Giuseppe Zacconi, figlio del grande attore Ermete, proprietario del teatro Eden, un pezzo di storia, e di altre sale di cinema. Zacconi vive da solo, con un maggiordomo, e si vocifera sulle sue preferenze sessuali. Viene convocato, e è costretto, per discolparsi, a dichiarare e provare la propria impotenza, dalla nascita. Non reggerà allo scandalo, alla vergogna, e tempo dopo il cuore gli scoppierà. Poi, è la volta di due amministratori, il sindaco di Viareggio, e il presidente dell’Azienda autonoma di soggiorno e turismo, entrambi socialisti. Trascinati nel fango da Baldisseri, si dimettono, poi vengono scagionati completamente. E poi è la volta di Adolfo Meciani. Proprietario di stabilimenti balneari, alto, bell’uomo, bella vita, belle macchine, gode fama di playboy. Baldisseri ne svela il lato oscuro, con la sua Duetto rossa rimorchiava i ragazzini. Meciani, sotto la cui casa stazionano energumeni minacciosi, ha un alibi ma non regge alla pressione, alla vergogna e si ricovera in clinica. Lo arrestano. E in carcere prende un lenzuolo, se lo annoda intorno al collo e si appende a una sbarra. Starà per qualche giorno in coma, poi morirà. Il fango è diventato assassino, le indagini producono una scia di sangue. Tanto, so’ froci.Pasolini scrive in quei giorni parole di fuoco: «Ma in cosa differisce l’atteggiamento di Marco Baldisseri e compagni verso gli omosessuali dall’atteggiamento dei giornalisti di tutti i giornali italiani e di tutti gli inquirenti? Non differisce sostanzialmente in nulla. Nel lanciare le loro accuse Marco Baldisseri e gli altri si sentono sostenuti dall’opinione pubblica, sanno di far piacere all’opinione pubblica, sanno di obbedire a una necessità di odio dell’opinione pubblica. Opinione pubblica – in tal senso – rappresentata ugualmente dai cronisti dell’“Osservatore romano”, dai cronisti de “l’Unità”» e da tanti intellettuali laici e di sinistra. Ne metto qui un florilegio. Mino Monicelli, il grande regista, eh, su «L’espresso», scrive che «è necessario lavare via lo sporco dalla città impestata dall’incubo di quell’immondo imbroglio di omosessuali che si chiama ‘caso’ Lavorini». Monicelli descrive così gli omosessuali che frequentano la Pineta di Viareggio: «È una zona frequentata da pervertiti di ogni sfumatura, appiedati e motorizzati, pederasti e procacciatori di ragazzi... tutta una variopinta fauna di satiri silvani». E «Il Borghese», rivista della destra, scriveva: «I “ragazzi della pineta” di Viareggio, esattamente come i “ragazzi di vita” di Pasolini, sono tutti figli del popolo e provengono tutti (almeno quelli portati alla ribalta delle cronache) da famiglie irregolari... È questo dunque il “sano popolo lavoratore” che dovrebbe fare giustizia della società borghese? » È il 1969, eh, mica mill’anni fa. Tanto, so’ froci.Sarà il procuratore di Pisa, Pierluigi Mazzocchi – Viareggio è in provincia di Lucca, ma Vecchiano, invece, dove è stato trovato il corpo di Ermanno, è provincia di Pisa – a imprimere la svolta vera alla storia. Baldisseri è il giovane cassiere del Fronte giovanile monarchico, il cui segretario è Pietro Vangioni, ambizioso militante di destra. C’era una sede, un garage, frequentato da tutti questi ragazzi, che poi era stata improvvisamente chiusa. Baldisseri ammette fra bugie: «E stato Pietro Vangioni a organizzare il rapimento, avremmo dovuto estorcere dieci, quindici milioni ai Lavorini e quindi uccidere Ermanno». Per il procuratore, è proprio questa la verità: giovani di destra che organizzano un rapimento per estorcere denaro a fini eversivi. È che non eravamo abituati.E così, infatti, la sentenza del primo processo, 1975, propende piuttosto per l’aspetto “vizioso”, un omicidio per caso nato in un contesto squallido di pedofilia. In appello, tutto si ristabilisce e così sarà in Cassazione, 1977: l’aspetto «pseudopolitico» dell’omicidio Lavorini viene inquadrato nella sua giusta luce. Un pasticcio, forse, artigianale e dilettantesco, ma maturato in una mentalità, in un ambiente. Non è solo il primo kidnapping, è la prima volta che un gesto criminale è stato compiuto da militanti di destra per fini politici. L’atteggiamento della stampa è fotografato nelle parole di Marco Nozza, il pistarolo: «Presente in massa quando le prime pagine erano tutte un trionfalistico ribollire di titoli giganti sugli omosessuali della pineta viareggina, la grande stampa italiana fu assente quasi al completo quando si confermò la versione dell’omicidio con sequestro di persona per estorsione e vennero a galla i retroscena pseudopolitici che coinvolgevano il Fronte monarchico giovanile. Finché c’erano da raccontare i particolari morbosi, fin quando il movente pareva “sessuale”, tutti a scrivere, a commentare, a stigmatizzare. Ma quando venne fuori la squadraccia del Fronte, l’interesse si sgonfiò. La maggior parte dei giornali non diede nemmeno conto della sentenza, compresa quella della Cassazione».L’anno della morte di Lavorini, 1969, è quello della strage di piazza Fontana. I presagi più cupi si confermavano. Erano arrivati i professionisti del terrore.