La giustizia torna ad essere terreno di scontro, non più solo tra politica e magistratura, ma ora anche tra le varie anime interne alle toghe. I fronti caldi possono ridursi a sei: su alcuni, come le intercettazioni, infuriano le dichiarazioni; altri, uno su tutti la prescrizione, sono stati temporaneamente rimandati nell’agenda parlamentare. Tutti, però, minacciano di inasprire il dibattito pubblico.La prescrizioneLa prescrizione è una causa di estinzione del reato e stabilisce il termine temporale entro il quale lo Stato più perseguire un determinato delitto. Si calcola a partire da quando il reato è commesso e l’ultima legge di modifica è stata - nel 2005 - la cosiddetta “ex Cirielli”, che ha previsto l’estinzione del reato in un numero di anni «pari al massimo della pena edittale», ma mai inferiori a 6. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel 2014 si sono prescritti circa 123 mila processi. Il 70% delle prescrizioni, tuttavia, si determina nella fase delle indagini preliminari (e dunque non è riconducibile ad eventuale attività dilatoria della difesa). Il Governo Renzi ha proposto un nuovo ddl per allungare i tempi della prescrizione e prevede che il decorso dei termini si sospenda per due anni dopo la sentenza di primo grado e per un anno dopo quella di appello (solo se conforme). Approvato dalla Camera nel marzo 2015, il ddl ora è fermo in Commissione Giustizia al Senato a causa del mancato accordo con Ncd e probabilmente slitterà alla prossima legislatura.Anche le toghe chiedono la riforma dell’istituto, ma in modo più sostanziale: «fermandola al momento del rinvio a giudizio o, almeno, dopo la sentenza di primo grado», ha scritto il Csm nella nota di commento al ddl. «La prescrizione è indispensabile, ma fino al processo. E’ un’anomalia solo italiana che continui a decorrere anche dopo la condanna di primo grado», ha detto il presidente di Anm Piercamillo Davigo.Separazione delle carriereLa Costituzione prevede all’articolo 104 che la magistratura sia un unico ordine indipendente. Il tema della separazione tra magistratura requirente e magistratura giudicante si è posto dopo la riforma del 1988, quando si è passati da un processo di tipo inquisitorio a uno accusatorio. Il dibattito è stato animato negli anni Novanta dal giudice Giovanni Falcone, che parlava di due figure «strutturalmente differenziate nelle competenze e nelle carriere» e della necessità di una specifica formazione professionale per il pm, diversa da quella del giudice, «figura neutrale e al di sopra delle parti». L’ultimo tentativo di riforma risale al 2011, con il governo Berlusconi, bloccato dal suo stesso esecutivo. Per i contrari, infatti, sottoporre i pubblici ministeri al controllo dell’esecutivo significava minare l’indipendenza della magistratura rispetto al governo.Riforma dell'appelloStrettamente legato al tema della prescrizione, una parte della magistratura chiede di modificare la possibilità di ricorrere in appello. Per ridurre il carico delle Corti d’Appello, «Aboliamo il divieto di reformatio in peius della sentenza di primo grado, anche se l’appello viene proposto dall’imputato» ha proposto Davigo. Il giudice di secondo grado, infatti, non può infliggere una pena maggiore di quella di primo grado e per questo - secondo il presidente di Anm - il ricorso all’appello è così massiccio. Sulla stessa linea sono anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, che hanno addirittura proposto l’eliminazione dell’appello (inutile perchè prevalentemente basato sulle carte del primo grado). Proposta, questa, bocciata senza riserva dagli avvocati dell’Unione Camere Penali.Carcerazione preventivaNel 2015 lo Stato ha pagato 36 milioni di euro per risarcire le vittime di ingiusta detenzione, ogni anno sono 7mila le persone arrestate e poi giudicate innocenti. «La presunzione di innocenza non è un fatto interno al processo, come invece sostiene il giudice Davigo, ma un principio cardine del sistema», ha detto l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione della Camere penali. Per imporre uno stop alle “manette facili”, il governo Renzi ha approvato nel 2015 la riforma delle misure cautelari, che rende la carcerazione preventiva extrema ratio e subordinato all’obbligo per il pm di dimostrare l’«attualità» del pericolo di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del reato. Inoltre, l’ordinanza del gip che dispone la misura cautelare deve essere motivata per esteso.Responsabilità civile dei magistratiSalutata come riforma epocale da Renzi, nel febbraio 2015 è stata approvata la riforma della vecchia legge Vassalli. Il cittadino che ha patito un danno da “malagiustizia” può esercitare l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato, che poi si rivale nei confronti del magistrato. Le toghe rispondono con lo stipendio netto annuo fino alla metà. Il risarcimento è totale, invece, se c’è stato dolo. La nuova legge ha poi eliminato il filtro sull’ammissibilità della domanda. Ridisegnati anche i confini della colpa grave: non solo per affermazione di fatto inesistente o negazione di fatto esistente, ma anche in caso di travisamento di fatto o prove ed emissione di provvedimento cautelare senza motivazione o fuori dai casi previsti. «L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Preoccupa però la mancanza di un filtro», è il commento di Piercamillo Davigo. La legge è stata definita «puntivia» da parte di Magistratura indipendente e non è piaciuta nemmeno al numero due del Csm, Legnini: «valuteremo che l’indipendeza e la serenità dei magistrati non siano incise».IntercettazioniE’ il tema più controverso. Renzi ha prima parlato di riforme e poi fatto marcia indietro, ma al Senato è in esame il testo sulla pubblicabilità delle intercettazioni approvato dalla Camera in settembre. «Bisogna tenere insieme il diritto di effettuare le indagini, il diritto di difendersi, la riservatezza di informazioni non necessarie a fornre il quadro probatorio e il diritto all’informazione», ha detto la ministra Maria Elena Boschi. Il dibattito divide, però, soprattutto le toghe. Da una parte ci sono i procuratori di Torino, Napoli, Milano, Roma e Firenze che hanno emanato delle “linee guida” che vietano alla polizia giudiziaria, che materialmente ascolta le telefonate, di trascrivere le conversazioni non penalmente rilevanti. In questo modo, le informazioni non rilevanti non possono venire allegate dai pm alle richieste di misure cautelari (e dunque finire ai giornali). Dall’altra il fronte più giustizialista guidato da Davigo, che ha liquidato il problema: «Le intercettazioni non vanno toccate. La pubblicazione di quelle non pertinenti è già vietata dalla legge penale, nel caso si inasprisca la pena per la diffamazione».