Finora, per quelli che fanno il tifo a favore, è stato poco più di un wishful thinking: un desiderio da afferrare per la coda, come direbbe Picasso. Finora, per quelli che lo contrastano, è stata una sorta di ipotesi di scuola, da evocare certo ma con il solo fine di esorcizzarla. Mettiamola così, allora: finora sull'eventualità che al referendum vinca il No si è schierata la propaganda dell'uno e dell'altro schieramento. Ora invece qualcosa sta cambiando. Al di là dei sondaggi che continuano a dare un sostanziale testa a testa, con qualche punto percentuale di preferenza per i contrari, adesso alcuni segnali testimoniano che lo scenario peggiore per Matteo Renzi, piaccia o meno, acquista once di credibilità. Il Financial Times che rovescia clamorosamente il suo auspicio trasformando le riforme renziane da fiore all'occhiello dello sforzo di rimettere in marcia il Paese in "ponte verso il nulla" (compreso quello sullo Stretto di Messina, par di capire). Le Cancellerie internazionali che corrono in soccorso di palazzo Chigi (ma senza perdere la tradizionale sospettosità: vedi scontro con la Merkel) e per ultima anche la Commissione Ue che apre i cordoni della flessibilità «perché c'è una minaccia populista che incombe». I referendum che dovunque e in qualsiasi latitudine si svolgano confermano che lo tsunami del vorto "contro" è ancora fortissimo. Tutte avvisaglie che non permettono sonni tranquilli.Ma se le cose stanno davvero così, se il successo del No non è più fantasmatica "gufata" bensì pericolo reale, allora bisogna prepararsi. E cominciare a immaginare in quel caso quali scenari si aprirebbero, su chi bisognerebbe puntare, su quali gambe sarebbe opportuno far marciare un "dopo" ancora nebuloso ma che non può né deve diventare paralizzante.L'elemento prioritario riguarda l'atteggiamento dell'inquilino di palazzo Chigi: se perde, Matteo Renzi lascia o no? E di fronte ad un "leave" imprevisto, i mercati si faranno irretire dalla sirena della speculazione? Come è fin troppo evidente, le due cose sono legate, nel senso che la prima si trascina la seconda. La quale tuttavia - ed è il peggior l'incubo di tanti - può anche procedere per sua forza inerziale, indipendentemente dalle decisioni del premier: la speculazione va dove la portano le debolezze altrui.Che in caso di sconfitta Renzi resti al suo posto è possibile, però assai difficile. Gioca contro il carattere dell'uomo ma anche la friabilità di un equilibrio politico che con un verdetto negativo diventerebbe preda di convulsioni forse ingovernabili, frutto di disgreganti spinte contrapposte sia dentro il Pd che tra gli alleati. Renzi rischierebbe di diventare un novello San Sebastiano: ruolo che poco gli si addice.Se il presidente del Consiglio si dimette, la palla passa nelle mani di Sergio Mattarella: è il refrain di tutti, anche se non tutti lo sillabano con il fine di aiutare il capo dello Stato. Conoscendo l'attenzione che il presidente della Repubblica rivolge alle regole costituzionali - a maggior ragione se i cittadini decidessero di lasciarle intonse - e lo scrupolo nell'applicarle, è sicuro che saranno loro a segnare i paletti entro cui si muoverà il Colle. Però è evidente che nessuno ha la bacchetta magica, e di fronte ad una situazione diventata un rompicapo soluzioni estemporanee non ne esistono, né è il caso di evocarle. Dunque Mattarella può rimandare il governo attuale alle Camere: i numeri resterebbero quelli di adesso; le condizioni politiche, come appena detto, no. E' altresì possibile che l'incarico venga affidato ad una personalità istituzionale per varare un esecutivo di scopo. Che poi sarebbe stilare in tempi brevi una nuova legge elettorale per lasciare la parola agli italiani. In questo quadro, il nome più gettonato è quello del presidente del Senato, Pietro Grasso; anche se non si possono escludere figure di civil servant del calibro di Giuliano Amato. Ci sono chance anche per un governo di profilo più politico, che possa muoversi nel solco tracciato da Renzi - e dunque sorretto dalla stessa coalizione - sapendo di poter contare sull'appoggio di un premier a quel punto diventato ex ma pur sempre al comando del partito di maggioranza relativa, senza o contro il quale nulla si consolida. In questo caso è evidente che il nuovo presidente del Consiglio dovrebbe provenire dalle fila del Pd, o avere il completo avallo dello stato maggiore del Nazareno. Franceschini? Veltroni? Inutile sforzarsi: il totonomi è esercizio tanto intrigante quanto effimero.Ma c'è anche un'altro scenario, più inquietante. Un Paese come il nostro, gravato dal fardello di un debito pubblico sempre più dilatato, con percentuali di crescita impalpabili e stabilità politica compromessa, può finire preda di spinte laceranti, tali da compromettere la messa in sicurezza dei conti pubblici. A quel punto servirebbe un Timoniere in grado di rassicurare i mercati, i partner europei e i cittadini. Il profilo è chiaro: il nome tocca a Matterella.E' con questi retropensieri e le ombre di una campagna elettorale ancora tutta da giocare, che Renzi riunisce lunedì la Direzione del Pd. Ovvio che l'attesa sia alta; improbabile assistere a colpi di scena nella strategia renziana. Il nervo scoperto, lo sanno tutti, è la riforma elettorale. Il premier si è detto aperto ai contributi migliorativi, ma ha anche ribadito di considerare l'Italicum «un ottimo sistema». Il tentativo renziano sarà di incunearsi nelle divisioni della minoranza. Ma è anche vero che di tutte le variabili in campo, quella che riguarda la sinistra dem è l'ultima ad occupare i pensieri di Renzi. Molto più spazio c'è per il voto dei berlusconiani e dei grillini. E' a loro che il premier dedicherà la sua attenzione. Gli scenari del "dopo" non lo interessano. Per scaramanzia. E per convinzione profonda: vincerà il Sì.