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IMAGOECONOMICA
Al momento nessuno sembra preoccuparsi. Da giorni la maggioranza è impegnata a incassare il “dividendo”, cioè il vantaggio che il decreto sicurezza dovrebbe assicurare in termini di consenso. Ancora ieri Matteo Salvini ha proclamato che la Lega si batte affinché «la castrazione chimica per stupratori e pedofili sia legge», e ha sollecitato gli alleati a concretizzare la “promessa” evocata, per ora, solo da un ordine del giorno collegato al Dl. Giorgia Meloni ha maramaldeggiato con qualche gaffe degli oppositori: «L’accusa di alcuni giornalisti di sinistra contro il decreto: ‘ Questo governo vuole criminalizzare chi delinque’. Confermo». Solo Forza Italia è rimasta un po’ in disparte, consapevole che quella sequenza di norme ultrarestrittive – in qualche caso assurde e incostituzionali “anche” nel merito – è uno smacco, per l’anima moderata del centrodestra. Fatto sta che nessuno, né i meloniani né i salviniani né tantomeno i berlusconiani, ha dato il benché minimo segno di allarme sul rischio che un così brulicante armamentario repressivo finisca spazzato via in un colpo solo dalla Consulta. Sul Dubbio ne avevamo discusso, mercoledì, con Mario Esposito, costituzionalista all’Università del Salento. Abbiamo chiesto un parere anche a Sandro Staiano, che oltre a essere ordinario presso la Federico II di Napoli, è stato presidente dell’Associazione che riunisce i costituzionalisti di tutta Italia: «Potrebbero ricorrere i requisiti costituzionalmente necessari per l’emanazione di decreti legge se fossimo davvero di fronte a un’emergenza. Ma sappiamo bene che, in materia di ordine pubblico, non si parla di emergenza. A meno che non si inventi il concetto di emergenza stabilizzata, ma si tratta di un ossimoro giuridicamente insostenibile. Quindi i requisiti indicati dall’articolo 77 non ci sono. Quella relativa all’ordine pubblico non è un’emergenza, è una disfunzione. Stabilizzata, appunto. Nulla che coincida con i presupposti sanciti dalla nostra Carta». Insomma, il decreto sicurezza è costituzionalmente illegittimo. E lo è, chiarisce Staiano, «anche perché non è che la legge di conversione, per il solo fatto di essere discussa dal Parlamento, sia in grado di sanare quel vizio: il difetto di legittimità si trascina dal decreto legge al provvedimento di conversione approvato dalle due Camere. È banalmente cosi». Staiano è molto netto. E conferma dunque la valutazione del collega in servizio presso l’ateneo leccese. Il decreto sicurezza rischia di essere invalidato, di qui a un anno o anche meno, dalla Corte costituzionale. Fatica inutile. Fatica sprecata.
E oltretutto, censura che si poteva evitare. Le stesse norme che martedì il Senato ha definitivamente convertito in legge erano – come ormai sanno anche le pietre disseminate attorno a Montecitorio e Palazzo Madama – già state approvate, sotto forma di ddl, nel settembre 2024 dalla Camera dei deputati. Poi, alle soglie della discussone nell’aula del Senato, era arrivato il colpo di scena. Il centrodestra si era persuaso della necessità di emendare il testo, anche per accogliere alcune sollecitazioni del Colle. Ma le correzioni che hanno reso meno sgangherato il provvedimento non sono state inserite sotto forma di emendamenti al disegno di legge: il governo ha preferito prendere il testo integrato dalle poche modifiche e trapiantarlo pari pari, lo scorso 4 aprile, in un decreto legge, appunto. Ha però così certificato che non si trattava di norme di straordinaria “necessità e urgenza”: erano in gran parte identiche, quelle misure, a quanto riportato nel famigerato ddl che lo stesso governo aveva presentato alla Camera nel gennaio 2024. Come potrebbero essere “urgentissime” norme che l’Esecutivo aveva tranquillamente affidato, quasi un anno e mezzo prima, a una procedura normale, con la prospettiva di attendere parecchi mesi prima di vederle entrare in vigore?
A rilanciare la domanda, retorica, è stato, lunedì scorso, il Fatto quotidiano. Esposito e Staiano, interpellati dal Dubbio, chiariscono a loro volta che “necessità e urgenza” devono riguardare, per la Costituzione, casi straordinari, e ora non si è affatto davanti a uno “straordinario imprevisto”: si tratta di una «disfunzione consolidata», come dice il costituzionalista della Federico II. Che aggiunge: «L’abuso del decreto legge è fenomeno lungo quanto la storia della Repubblica, sotto governi di ogni colore. La Corte costituzionale, per una breve stagione, lo ha contrastato, per poi ripiegare di fronte al suo riproporsi in forme nuove e più gravi, come quando il decreto legge disarticola discipline organiche, quali i codici penale e di procedura penale, istituendo numerose nuove fattispecie di punibilità. Resta da vedere che farà la Consulta di fronte alle ulteriori distorsioni» . E il giudice delle leggi potrebbe non fargliela
passare, a Esecutivo e maggioranza. Il pericolo è evidente. Ma a nessuno importa. Paradossalmente, persino le opposizioni sono concentrate piuttosto sull’evocazione della «svolta autoritaria» ( copyright Francesco Boccia) anziché sull’illegittimità del decreto e sulla possibile decadenza delle nuove norme.
Ora, se pensiamo che si tratta in gran parte di norme- spot, di reati modellati spesso su martellanti campagne televisive ( come quella relativa ai “ladri di case”) o sulle aspettative di segmenti molto specifici dell’elettorato ( a cominciare dalle forze dell’ordine), se insomma si può parlare di potere legislativo impiegato quasi esclusivamente per esigenze di consenso ( e va così da lustri, e certo non solo con la destra al governo) qui siamo però a una versione “10.0” del populismo penale, del Parlamento che si riduce a sfornare reclame: siamo alla legge- spot “usa e getta”. L’intero decreto, fra un anno, potrebbe essere soppresso dalla Consulta, ma fa nulla. Basta aver ottenuto una pur effimera impennata di consensi tra i settori più “spaventati” dell’elettorato. E pazienza se poi quelle norme saranno bocciate. Se ne approveranno altre, magari in tempo per la campagna elettorale del 2027. Una degradazione del legislativo a fast food, a tipografia che sforna manifesti, insomma. Certo, se poi qualcuno si sorprendesse ancora per il crollo al 21,1% della fiducia nei partiti, segnalato dall’ultimo Rapporto Eurispes, la tentazione di rispondere col turpiloquio sarebbe fortissima.