Uno guarda il calendario e si rasserena. Il calendario della capigruppo di Montecitorio, non quello gregoriano. Quest’ultimo dice che siamo a luglio e che per il Parlamento è partito il “countdown trolley”, cioè il conto alla rovescia che precede il giorno della grande fuga dei deputati verso le vacanze. Manca un mese e pochissimo più, un margine irrisorio per le riforme della giustizia. Ma appunto il calendario della capigruppo può illudere: ieri infatti la conferenza dei presidenti ha riaggiornato i turni d’Aula, cioè le date di arrivo dei ddl e, pensate un po’, ha fissato al 23 luglio

— che comunque non è dietro l’angolo — la discussione sul ddl penale, cioè la riforma più problematica per i cinquestelle spaccati. In uno sforzo ulteriore di ottimismo, la capigruppo ha addirittura previsto che tre giorni dopo, lunedì 26 luglio, si passerà al voto. È fatta? Macché: come spiegano dalla commissione Giustizia, dov’è incardinato il ddl su processo e prescrizione, si tratta di un mero automatismo. La data d’arrivo del ddl in Aula era stata fissata al 28 giugno, che ormai è passato. La dicitura “Disegno di legge delega sul processo penale” è lì in elenco e, un po’ burocraticamente, i capigruppo di Montecitorio la ripropongono. Ma dietro il nuovo calendario non c’è alcuna novità concreta. Non ce ne sono in commissione, dove l’esame degli emendamenti non è mai partito, e non ce ne sono da parte del governo, perché gli altri decisivi emendamenti, quelli della ministra Marta Cartabia, non sono ancora stati illustrati al Consiglio dei ministri e difficilmente lo saranno nelle prossime ore.

Falso allarme, insomma. La giustizia resta al palo, anzi si balcanizza. Non può affrontare i nodi strutturali del processo penale e del Csm, divaga perciò verso declinazioni che meglio fanno emergere le distanze fra destra e centrosinistra. Il carcere, innanzitutto. Ieri, prima ancora che Cartabia sferrasse il proprio colpo durissimo ( di cui si dà conto in altro servizio, ndr) sull’ «oltraggio alla dignità della persona e della divisa» perpetrato coi pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, il pm aveva le chiesto di riferire in Parlamento su quegli «abusi intollerabili». Il segretario Enrico Letta ha detto a Domani che i dem sono «profondamente indignati per le violenze degli agenti». È, sì, la naturale sensibilità della maggiore forza progressista sui diritti dei detenuti, ma è anche un modo per segnare le distanze dalla destra. Sulla mattanza in carcere, Matteo Salvini pensa bene di esibirsi, oggi, in una visita agli agenti del penitenziario campano «per portare la mia solidarietà» ( sic!), e si rifiuta, come la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, di rilasciare altri commenti sulle violenze. Con la propria vigorosa indignazione, il Nazareno insomma ricorda che esiste pur sempre una giustizia di sinistra lontana da quella dei partiti legge e ordine, partiti dei quali il Pd pure è alleato nel governo Draghi.

Sono diversivi nella pausa delle riforme causata dalla crisi grillina. E se ne possono fare altri esempi. Nella commissione Giustizia della Camera in cui non c’è ombra di convocazioni su penale e Csm, ci si divide ancora, fra il centrodestra e le altre forze, a proposito di legge sulle droghe. Tanto che il deputato del Carroccio Jacopo Morrone lascia l’incarico di relatore al 5 stelle che della commissione è presidente, Mario Perantoni, e lo fa in polemica con quello che per lui è un deragliamento antiproibizionista: il leghista era per il testo del suo capogruppo a Montecitorio Riccardo Molinari, tutto centrato sull’inasprimento delle pene; Pd e 5 stelle sono più attratti dalle proposte che prevedono anche la coltivazione legale della cannabis. Perantoni assicura che si sforzerà di trovare un punto di equilibrio. Ma è chiaro come destra e sinistra, sulle droghe, siano abbastanza lontane da rendere ancora più sbilenca la reciproca convivenza sotto lo stesso governo.

Vogliamo continuare? Spostiamoci un attimo a Palazzo Madama, dove le solite indicibili difficoltà permangono per il ddl Zan: in teoria domani scadrebbe il termine per gli emendamenti, in pratica il tavolo di maggioranza riunitosi ieri ha lasciato addosso al presidente della commissione Giustizia, Andrea Ostellari della Lega, la croce di un’improbabile sintesi tra favorevoli e contrari, da presentare al nuovo summit di martedì. Visto il clima di sospetti e diffidenze che l’implosione pentastellata sembra esasperare fra destre, moderati e progressisti, è difficile intravedere schiarite per la legge antiomofobia.

Volete un lapsus? Rieccoci di nuovo alla Camera. A mostrare quanto la banalità dell’episodio sia spesso rivelatrice è un tweet del deputato Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione: «Il voto sul testo base della legge eutanasia è saltato. Motivo? La sala individuata era troppo piccola per contenere tutti i deputati delle commissioni Giustizia e Affari sociali e la seduta è stata sciolta. Non stupiamoci se fanno i referendum». Ultima chiosa: «Si può essere favorevoli o contrari al testo proposto, ma è sconcertante che il voto su una materia così delicata dipenda da ragioni logistiche». Ma appunto, dietro il rischio assembramenti si nascondono in realtà contrasti pure su quel dossier. Infine, è slittato ad oggi il termine per gli emendamenti, sempre in commissione Giustizia alla Camera, sull’equo compenso: la legge che tutela le retribuzioni dei professionisti, e degli avvocati in particolare, è a trazione FdI- Lega- FI, eppure è tra le poche materie che, come ricordato da Perantoni, mette d’accordo tutti, grillini inclusi. Ma figuriamoci se, col caos e l’isteria che regnano sovrani, su quell’unico dossier condiviso ci si poteva aspettare un’ansia di far presto.