C’è qualcosa di familiare, quasi di storico, nello scetticismo con cui Ignazio La Russa ha commentato la riforma della giustizia e, in particolare, la separazione delle carriere. Non è la prima volta che il presidente del Senato lascia trapelare la sua perplessità su un progetto che, per larga parte del centrodestra, rappresenta la bandiera simbolica della stagione garantista.

Ma le sue parole di martedì risuonano con un’eco più profonda: quella del vecchio riflesso identitario della destra italiana, che davanti al traguardo della riforma della giustizia si scopre ogni volta impacciata, quasi restia a varcare la soglia. Un’antica cautela che affonda le radici nella storia del Msi e poi di Alleanza Nazionale, dove la diffidenza verso la magistratura si è sempre accompagnata a un rispetto quasi timoroso per le istituzioni giudiziarie. Il risultato è stato un garantismo a metà, spesso invocato più contro l’uso politico delle procure che in nome di una reale modernizzazione del sistema.

Lo stesso Silvio Berlusconi, nei momenti più duri della sua personale battaglia contro i giudici, non mancò di rimproverare ai suoi alleati di destra quella che definiva una ambiguità di fondo. E la memoria corre inevitabilmente ai giorni dello scontro frontale con Gianfranco Fini, quando il Cavaliere, in un messaggio ai Promotori della libertà, lanciava invettive contro «alcuni magistrati che si intromettono illegittimamente nella vita dei cittadini» e accusava l’ex alleato di aver «tradito il voto degli elettori consegnandosi alla sinistra». Fini rispose a tono: «Berlusconi è il regista del teatrino della politica, e sarebbe meglio se andassimo tutti oltre di lui».

Ma dietro lo scontro personale si nascondeva un conflitto politico più profondo, quello sulla giustizia. L’allora presidente della Camera rivendicava di aver bloccato una riforma che «nulla aveva a che fare con i diritti del cittadino» e accusava Berlusconi di voler piegare le leggi ai propri processi. È in quella frattura, mai del tutto ricomposta, che affonda l’attuale esitazione della destra.

Quando Giorgia Meloni, all’inizio della legislatura, negò a Forza Italia il ministero della Giustizia preferendo Carlo Nordio ad Elisabetta Casellati, si capì che il tema sarebbe rimasto una mina interna. Nordio, ex magistrato e simbolo del garantismo liberale, ha trovato in Fratelli d’Italia un consenso formale, ma non sempre una convinta adesione di sostanza. Le parole di La Russa lo dimostrano: «La separazione delle carriere può essere un obiettivo nobile – ha detto – ma va trattata con cautela, perché non può trasformarsi in uno scontro con la magistratura».

Ma prima c'era stata anche la voce dal sen fuggita del sottosegretario Delmastro sulla riforma, che aveva destato clamore perché accoglieva molte delle critiche che le toghe organizzate stanno muovendo al testo Nordio. Parole che, lette tra le righe, rivelano la sindrome di sempre: quella di una destra che diffida dei giudici organizzati ma non osa sfidarli fino in fondo. Come se temesse che il passo definitivo – quello della riforma strutturale – possa spezzare un equilibrio istituzionale di cui in fondo si fida.

La stessa prudenza che aveva spinto Fini, nel pieno del duello con Berlusconi, a parlare di “processo breve” come di una misura utile solo a «cancellare i contenziosi del premier», e che oggi riemerge nei distinguo tra le varie anime del centrodestra. Niente di clamoroso, beninteso: la riforma Nordio è il terreno su cui, dall'inizio della legislatura, si è registrata la maggiore sintonia nella maggioranza, ma da domani si entrerà in una fase – quella della campagna referendaria – in cui ogni tentennamento potrebbe essere recepito dagli elettori come una concessione alle argomentazioni del fronte del no.

D’altra parte, non sarebbe la prima volta che la destra arriva a un passo dalla svolta e si ferma. “Braccino”, direbbero nel linguaggio sportivo. Ma in politica, il braccino è spesso sinonimo di volontà inconfessabile. E la storia insegna che sul terreno della giustizia, più che altrove, la destra italiana ha sempre preferito evitare l’ultimo miglio, quello che la trasformerebbe da forza di protesta a forza di sistema. Oggi la sfida è tutta lì: dimostrare che quel passo, finalmente, è pronta a compierlo davvero.