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«È stato un lavoro impegnativo. Difficile. Le questioni di diritto in gioco sono importanti, delicate e allo stesso tempo sofisticate». A parlare è Stefano Giordano, avvocato che difende uno dei componenti della famiglia Cavallotti, Salvatore, nel ricorso alla Cedu e che ha appena trasmesso ai giudici di Strasburgo le osservazioni in replica alla memoria trasmessa, a fine novembre, dall’Avvocatura dello Stato. Dopo aver ottenuto la clamorosa e storica vittoria nella causa di Bruno Contrada dinanzi alla stessa Corte dei Diritti umani, Giordano è di nuovo coinvolto in una controversia europea potenzialmente epocale: il ricorso riguarda le confische totali dei beni subite negli scorsi anni a fronte delle assoluzioni riportate, per le stesse accuse di mafia, nel processo penale.
È un caso che - come riportato più volte sulle pagine del Dubbio, anche con gli approfondimenti degli avvocati Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo - potrebbe cambiare la legislazione antimafia in Italia. Un sistema basato sul codice così come modificato nel 2009 che è arrivato, appunto, a prevedere durissime sanzioni, quali sono le confische delle aziende frutto di una vita di lavorio, in assenza di reato. È proprio sul potenziale contrasto con il principio della presunzione d’innocenza, che la Corte di Strasburgo, nell’ambito del ricorso Cavallotti, aveva chiesto allo Stato italiano di rispondere.
Come ricordato su queste pagine, le repliche, affidate all’Avvocatura dello Stato, sono apparse tanto ampie nel corredo allegato quanto nella sostanza insufficienti. «Verrebbe da dire che in realtà l’Avvocatura dello Stato non ha risposto», osserva Stefano Giordano. «Ha descritto sì il fenomeno, ma non ha sciolto i veri nodi, non ha proposto una posizione efficace rispetto ai punti dolenti della vicenda, anzi dell’intero sistema della prevenzione antimafia».
Giordano difende in particolare lo zio di Pietro Cavallotti, Salvatore. Gli altri ricorrenti sono assistiti da altri due avvocati palermitani: Alberto Stagno d’Alcontres e Baldassarre Lauria. Tutti e tre i professionisti hanno inviato a Strasburgo, la scorsa settimana, le contro- osservazioni opposte agli atti dell’Avvocatura di Stato. Al centro delle loro argomentazioni, i difensori della famiglia Cavallotti indicano il paradosso per cui la misura della confisca non sarebbe, per la legge italiana, una sanzione penale, e sfuggirebbe così alle garanzie previste dalla Costituzione per qualunque persona accusata di un reato. «C’era stata una sezione della Cassazione che in realtà aveva riconosciuto la natura afflittiva, e dunque penale, delle misure di prevenzione antimafia. Poi con una successiva pronuncia le Sezioni unite hanno affermato che sequestri, confische e altri provvedimenti del catalogo previsto dal codice antimafia possono essere ascritti al campo della prevenzione se rispondono a una pericolosità del soggetto la cui attualità sia individuabile entro un segmento temporale determinato. Di fatto, è venuto così a cadere il nesso tra pericolosità attuale e misure di prevenzione. Ed è chiaro come già questo, nei fatti, travolga i princìpi del diritto penale. Effetto a cui contribuisce la modifica introdotta dal codice antimafia nel 2008- 2009, in virtù della quale la pericolosità non deve necessariamente essere individuata nel soggetto destinatario delle misure, ma può riconoscersi addirittura nel bene, nella res.
Che pure non è, in sé, soggetto di diritti. Ma, per la giurisprudenza della nostra Suprema corte, può essere di per sé pericolosa». Sono interpretazioni con cui salta la presunzione d’innocenza, perché la legge e il diritto vivente del sistema antimafia finiscono per infliggere sanzioni patrimoniali a chi non è mai stato condannato. E salta pure, ricorda l’avvocato Giordano, «il principio di irretroattività della sanzione penale: in virtù delle norme del 2009, infatti, vengono inflitte misure di prevenzione anche in relazione a fatti antecedenti all’entrata in vigore di quelle stesse norme. Cosa che sarebbe impossibile se la disciplina in questione fosse qualificata, dalla legge italiana, per quello che è nei fatti, cioè una sanzione penale: la norma che stabilisce una pena, come sappiamo, non può essere applicata retroattivamente. Nel momento in cui sono sottratte al diritto penale, le misure antimafia arrivano ad agire appunto su vicende antecedenti all’entrata in vigore delle relative norme. Ma non è finita qui. Perché il processo penale, secondo la nostra Costituzione, deve svolgersi nella parità delle armi fra accusa e difesa. Circostanza che non esiste nel sistema della prevenzione antimafia, il che rende possibili gli abusi. Basti pensare che i sequestri possono partire in virtù di un mero indizio, ossia della sproporzione fra reddito del soggetto e bene posseduto, e che tale sproporzione sussiste persino se la persona in questione dimostra che l’acquisto del bene gli è stato possibile perché aveva incassato soldi in nero, cioè persino se ammette e certifica di essere stato un evasore fiscale».
Nell’ampia documentazione trasmessa alla Corte europea dei Diritti umani, Giordano segnala ancora un altro paradosso, conseguenza - come le altre questioni - dell’intreccio fra leggi e integrazioni giurisprudenziali: «Il mio assistito in particolare non è tra i proposti, cioè i destinatari, delle misure di prevenzione inflitte agli altri componenti della famiglia Cavallotti: Salvatore è un terzo. Nel suo caso, la legge impedirebbe di pretendere la prova di liceità del bene. Prova che, diversamente dal diritto penale, nel codice antimafia è onere della persona colpita dal provvedimento anziché del magistrato. La presunzione di illiceità graverebbe solo sui proposti: ma la giurisprudenza ha prodotto un puntuale aggiramento della norma, e così anche il mio assistito Salvatore Cavallotti è stato colpito dalla presunzione di aver acquisito il bene in virtù di un’appartenenza alla criminalità mafiosa».
Tutto può avvenire, ancora una volta, grazie alla qualificazione non penalistica delle misure di prevenzione. Di fatto, un trucco a cui lo Stato italiano ricorre per infliggere pene a chi non è mai stato condannato. Cioè agli innocenti. Ed è su questo abominio del diritto che ora dovrà pronunciarsi la Corte di Strasburgo.