Il buon senso vorrebbe che Giovanni Toti fosse scarcerato, cioè che la giudice Paola Faggioni gli spalancasse la porta della casa in cui vive da rinchiuso ai domiciliari ormai da tre settimane. Da quando lo hanno arrestato e accusato di essersi fatto corrompere, in particolare dall’imprenditore del porto di Genova Aldo Spinelli. La cui sorte di detenzione domiciliare è accomunata a quella del governatore della Regione Liguria. E così, proprio per questa vicinanza di sorte tra i due, si capisce che quel che a tutti parrebbe logico, per la giudice delle indagini preliminari pare non lo sia.

Se un indagato si fa interrogare, e se l’interrogatorio dura oltre otto ore, e se lui risponde a ogni domanda. E se poi non nega nulla, né le telefonate intercettate, soprattutto quelle con l’imprenditore cui periodicamente il governatore chiedeva finanziamenti a ogni tornata elettorale. E se lo ha fatto tranquillamente per dieci anni, non nascondendo neppure un euro, perché ogni versamento è stato fatto non solo alla luce del sole, ma sempre secondo le regole previste dalla legge. E se nel frattempo nessun nesso di causalità risulta dimostrato tra le date e le modalità e le finalità dei versamenti e l’attività imprenditoriale che ruota intorno al porto. E se neppure sia dimostrabile che sia in capo al presidente della Regione la responsabilità di certe decisioni e di certi incarichi conferiti. E se infine nel corso delle tre settimane dal giorno degli arresti, uno in carcere per l’ex direttore del porto Paolo Emilio Signorini, domiciliari per Toti e Aldo Spinelli, altre misure cautelari più lievi per altri indagati “minori”, i pubblici ministeri hanno anche raccolto diverse testimonianze. Se in definitiva il quadro delle investigazioni appare piuttosto completo. Se, e dal momento che, tutte queste condizioni si sono ormai verificate, Giovanni Toti non dovrebbe essere liberato e messo in condizione quanto meno di poter assumere le proprie decisioni politiche? Prima di tutto quella consultazione con i suoi colleghi di partito e di coalizione per decidere se continuare la propria attività amministrativa di governatore di una Regione impegnata in notevoli investimenti finanziari e che non può essere abbandonata alla deriva.

La parola “dimissioni”, gridata a gran voce dai partiti di opposizione, che sperano solo di poter tornare, dopo tanti anni di governo del centrodestra, al vertice della Liguria, continua ad aleggiare nell’aria. Ma chi ha esperienza di queste faccende politico- giudiziarie sa bene che l’aspettativa dei magistrati è proprio quella, che il politico inquisito ceda al più presto le armi, cioè, detto in termini poco eleganti, si schiodi dalla poltrona. E si sa anche che tutti coloro, come i presidenti dell’Emilia piuttosto che della Toscana o della Lombardia, che sono stati inquisiti ma non arrestati, e poi prosciolti o assolti, non si sono dimessi e hanno continuato a lavorare.

È quindi chiaro come sia in corso un vero braccio di ferro tra le parti. I primi segnali dati dalla giudice Faggioni sono chiarissimi. Il primo caduto in questa vera guerra dei nervi è stato Francesco Moncada, l’ex dirigente di Esselunga, che pure si era affrettato a dimettersi dal consiglio di amministrazione della società. Il suo legale aveva chiesto la revoca dell’interdittiva professionale che gli era stata inflitta fin dal 7 maggio, il giorno del blitz. La risposta è stata negativa. Anche se non si vede come lui potrebbe replicare la commissione del reato, visto che ha già rinunciato all’incarico. Ancora più pesante la decisione di ieri che riguardava la posizione di Aldo Spinelli.

La giudice ritiene che, qualora l’imprenditore fosse libero e riprendesse a svolgere la propria attività, potrebbe ricascare nella tentazione di commettere reati. Strana visione del mondo del lavoro. Quasi come se fosse reato, o comunque possibilità di commettere illegalità, il fatto stesso di essere al vertice di un’impresa o una società. Se la motivazione di questo atteggiamento così rigido non provenisse da un magistrato, ma dal mondo politico, lo giudicheremmo al pari del pensiero di coloro che ritengono (o ritenevano, nel mondo politico del passato) la ricchezza come lo sterco del diavolo e l’impresa solo luogo di sfruttamento dei lavoratori.

Logico, in questo quadro, il fatto che l’avvocato Stefano Savi non abbia ancora avanzato alcuna richiesta di revoca della misura cautelare per Giovanni Toti. Eppure il buon senso comune vorrebbe proprio il contrario di quelle che sono le nefaste previsioni sullo scontato rifiuto all’alleggerimento della posizione del governatore. Perché in questo momento è quanto mai chiaro che non potrebbe, né vorrebbe, né avrebbe interesse alcuno a mettere in atto una delle condizioni indispensabili previste dall’articolo 274 del codice di procedura penale sulle esigenze cautelari. Cioè pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Ora, la giudice Faggioni sa bene che lei stessa non potrebbe comunque limitarsi a dire che, in quanto presidente di Regione con il possesso delle proprie prerogative, Toti potrebbe, già solo per l’esistenza del suo ruolo, inquinare le prove o ripetere il reato. La giudice dovrebbe dimostrare che il pericolo sarebbe attuale e concreto, non semplicemente “oggettivo”. Perché in caso contrario la gip aprirebbe ampi varchi a quanti affermano che questo tipo di inchieste, che finiscono ormai sempre, inutile negarlo, in bolle di sapone, sono più politiche che giudiziarie. È questo che vuole?