La Corte costituzionale assesta un nuovo colpo alla Spazzacorrotti. Questa volta a finire nel mirino è l’innalzamento della pena minima per l’appropriazione indebita, portata da quindici giorni a due anni di reclusione dalla legge numero 3 del 2019. Un innalzamento «brusco» e «sprovvisto di qualsiasi plausibile giustificazione», motivo che già da solo rende la scelta del legislatore costituzionalmente illegittima.

La Consulta, con la sentenza numero 46, depositata ieri, ha accolto la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Firenze in un processo per appropriazione indebita del valore di 200 euro, commessa da un agente immobiliare che aveva restituito soltanto in parte al proprio cliente la somma ricevuta a titolo di cauzione per un contratto di locazione, poi non portato a conclusione. Secondo il Tribunale, la scelta di innalzare la pena minima, compiuta con la Spazzacorrotti, conduce «all’irrogazione di pene sproporzionate, sia rispetto a quelle applicabili per i contigui delitti di furto e truffa, sia – intrinsecamente – in rapporto alla concreta gravità di una vasta gamma di condotte sussumibili entro la fattispecie criminosa, ma di contenuto disvalore offensivo rispetto al bene giuridico protetto». Secondo il giudice delle leggi, anche se il legislatore gode di ampia discrezionalità «nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato», discrezionalità «non equivale ad arbitrio». Il che vuol dire che «qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità». Il controllo sul rispetto di questi limiti spetta alla Corte costituzionale, che «è tenuta a esercitarlo con tanto maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari».

Il «brusco innalzamento del trattamento sanzionatorio del delitto di appropriazione indebita» è stato determinato da un emendamento a prima firma del grillino Gianfranco Di Sarno, ma le ragioni della scelta «non sono state in alcun modo illustrate nel corso del dibattito parlamentare» che ha condotto all’approvazione complessiva della Spazzacorrotti, nata per contrastare la corruzione e i reati contro la pubblica amministrazione. In mancanza di indicazioni ricavabili dai lavori preparatori, è necessario comprendere se l’innalzamento del minimo della pena detentiva in misura pari a quarantotto volte il minimo originario abbia una connessione razionale con gli obiettivi di fondo della legge. Nella relazione illustrativa veniva evidenziato come, nonostante non si tratti di un delitto contro la pubblica amministrazione, «il reato di appropriazione indebita è strumento che consente comunemente (come il reato di falso in bilancio o i reati tributari) di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione. Sembra pertanto opportuno, nella prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione, mantenere la procedibilità d’ufficio per le ipotesi di maggiore gravità di appropriazione indebita». Tale motivazione, però, secondo la Consulta non è in grado di fornire «alcuna giustificazione razionale» della scelta di un aumento così eccessivo del minimo della pena. Se può essere compresa, infatti, «la scelta di innalzare la pena massima dell’appropriazione indebita, in relazione alla necessità di colpire severamente condotte appropriative che l’esperienza ha mostrato essere potenzialmente prodromiche a pratiche corruttive», resta del tutto oscura la ragione che ha condotto ad innalzare «in maniera così aspra il minimo edittale - continua la sentenza -. E ciò a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti». Una pena simile, d’altra parte, appare manifestamente sproporzionata rispetto a quella minima (di sei mesi di reclusione) oggi prevista per un furto e una truffa che, in ipotesi, producano esattamente lo stesso danno patrimoniale di 200 euro. Per tale motivo, la scelta del legislatore viola gli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. Per la Corte, il rimedio appropriato è, dunque, equiparare la pena minima di questo reato a quella di furto e truffa, ovvero sei mesi. Un suggerimento che si muove «nell’orizzonte delle soluzioni “costituzionalmente adeguate”», ossia tratte da discipline «già esistenti», che consentono alla Corte «di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia», restando poi ferma «la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali».