Dopo anni, scompare definitivamente di scena la tesi della trattativa Stato-mafia come causale dell’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Non solo. Decostruita totalmente la testimonianza di un ex poliziotto che dice di aver visto un gruppo di uomini in giacca e cravatta rovistare nel luogo della strage di Via D’Amelio, mentre ancora c’erano addirittura le fiamme. In più viene evidenziato che le testimonianze, in seguito totalmente smentite, su Bruno Contrada presente sul luogo del vile attentato, rientrano nel depistaggio.

Tre elementi, quelli evidenziati dai giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, che azzerano le narrazioni mass mediatiche su un tema tuttora rimasto pieno di buchi neri. E che sicuramente, riempiendoli di racconti romanzeschi, non aiutano alla verità. Ma dopo trent’anni dai fatti, e dopo averli sprecati a causa delle prime indagini che portarono all’arresto, con tanto di condanna sigillata dalla Cassazione, di persone totalmente innocenti, il diritto alla verità è menomata. E sono proprio i giudici di Caltanissetta che aprono le motivazioni con una premessa a tal proposito, sottolineando che questo procedimento si colloca a distanza di circa 30 anni dalla strage di Via D’Amelio e sconta dei limiti strutturali non oltrepassabili poiché più ci si allontana dai fatti più è difficile “recuperare” il tempo perduto. Così come, evidenziano sempre i giudici, il decorso di questo lungo lasso temporale ha comportato il venir meno di fonti dichiarative (le persone invecchiano e muoiono) come i decessi dell’allora capo procuratore nisseno Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, capo della squadra “Falcone Borsellino” che condusse le prime indagini. Senza contare che il tempo ha logorato anche i ricordi delle fonti dichiarative ancora in vita.

Secondo i giudici, la matrice dell’attentato non è esclusivamente mafiosa e il depistaggio è servito ad allontanare anche l’altra verità, ovvero la complicità di soggetti istituzionali. Ma nel contempo, risultano forme di depistaggio anche l’aver messo in mezzo persone istituzionali, ma totalmente estranee ai fatti. Primo tra tutti l’asserita presenza di Bruno Contrada sul luogo della strage poco dopo la deflagrazione. Per i giudici della corte è un elemento significativo. Partono dalle dichiarazioni del magistrato Nino Di Matteo che all’epoca raccolse quelle testimonianze, poi rivelatesi totalmente prive di veridicità. Tutto nasce, ha raccontato Di Matteo, «dalla deposizione e i verbali di alcuni magistrati, Antonio Ingroia era uno di questi, la rappresentazione di un dato, che era stato detto da alcuni ufficiali del Ros, e in particolare, se non ricordo male, dal capitano Sinico, ai magistrati che la prima pattuglia intervenuta subito dopo l'esplosione in via D'Amelio aveva notato il dottore Contrada allontanarsi dal luogo dell'esplosione».

Bruno Contrada era “il diversivo giusto”

Lo stesso Di Matteo racconta che nel ’95 decise di riprendere in mano questi fascicoli e propose al capo della procura e agli aggiunti di esplorare questa vicenda. Perfino un collaboratore di giustizia, tale Elmo, aveva riferito che, per circostanze casuali, si trovava nei pressi di via D'Amelio il 19 luglio ’92, e nel momento in cui aveva udito la deflagrazione si era avvicinato e aveva visto Contrada allontanarsi dal luogo teatro della strage con una borsa o con dei documenti in mano. Ovviamente una testimonianza che risulterà del tutto priva di fondamento. I giudici, nelle odierne motivazioni, osservano che rimangono dei quesiti che – ci si rende conto (allo stato) sono destinati a rimanere irrisolti – «ma non por(se)li sarebbe un ulteriore errore di prospettiva che espungerebbe inopinatamente dal raggio di valutazione degli elementi rilevanti».

Segnatamente i giudici si chiedono perché in un arco temporale prossimo alla strage ci sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi? Alla luce di tutte le circostanze i giudici ritengono che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono a quella mafiosa) di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza. «Come ben evidenziato da talune parti civili (in primis l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, ndr) Bruno Contrada era “il diversivo giusto”: un soggetto - nel frattempo caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo al dottor Borsellino circa una contiguità del Contrada medesimo con l'organizzazione mafiosa - da collocare immediatamente sulla scena del crimine subito dopo l'esplosione».

Sfatata anche la presenza dei “man in black”

Emerge anche la decostruzione di un’altra narrazione. Nei programmi in prima serata, podcast, giornali e anche nei convegni pubblici, viene data per certa la storia della presenza di persone vestite come i “man in black”, a 40 gradi all’ombra, rovistare senza una goccia di sudore nell’auto ancora in fiamme di Borsellino. Questo è il racconto dato da Francesco Paolo Maggi, uno dei primi poliziotti ad arrivare sul luogo della strage. Ebbene i giudici sono chiari a tal proposito: non può essere credibile il racconto. «Inoltre – scrivono nelle motivazioni -, il riferire circostanze così importanti a distanza di un notevole decorso di tempo (Maggi nonostante fosse stato già sentito in altre occasioni non ha mai rivelato tale circostanza prima del processo Borsellino quater) rende ancora più dubbia la credibilità di un dichiarante che è comunque stato destituito dalla Polizia di Stato nel 2001 a causa dell’abuso di sostanze stupefacenti e che sulla borsa del dottor Borsellino ha fornito una versione che contrasta con i dati oggettivi provenienti dai filmati».

Non solo. I giudici ricordano come Maggi, appartenente all’organo di polizia giudiziaria incaricato di svolgere le indagini, non abbia redatto alcuna relazione di servizio fino al 21 dicembre 1992 senza fornire, di fatto, alcuna spiegazione del ritardo di oltre cinque mesi nella redazione di tale atto. «Rimane il dubbio se si tratti di una “negligenza” nella tecnica investigativa – l’ennesima accertata in questo processo – o se vi sia di più», chiosano i giudici. Osservano che non è possibile aggiungere altro senza scivolare nel rischio di fallacia causato «dalla pletora delle possibili ricostruzioni alternative anche in considerazione del fatto che non sono state acquisite nell’odierno procedimento tutte le precedenti dichiarazioni rese da Maggi prima della deposizione nell’odierno dibattimento».

Rimangono però delle certezze per la corte. Che il depistaggio c’è stato, le indagini svolte dalla squadra mobile capitanata da La Barbera sono costellate da forzature e abusi, che la mafia ha agito con la complicità di altri settori esterni. Tra le casuali della strage, non è contemplata la trattativa Stato-mafia, ma viene ad esempio ribadita la pista mafia-appalti come causa preventiva riportando le argomentazioni delle sentenze precedenti. Così come vengono riportate le dichiarazioni del pentito Giuffrè, il quale parla dei sondaggi pre attento che la mafia fece con personaggi del mondo politico e imprenditoriale. Tra loro emerge Pino Lipari (mafioso dal colletto bianco) e l ’ingegnere capo del comune di Bagheria, Nicolò Giammanco (deceduto nel 2012), figura emblematica e personaggio chiave nell'assegnazione degli appalti nonché legato da rapporti di parentela con l’allora capo procuratore Pietro Giammanco. Ma questo è un altro grande e infinito capitolo.