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La notizia è clamorosa, e stupisce che il mondo della politica non l’abbia ancora fatta propria, nelle commissioni giustizia di Camera e Senato dove si discute di intercettazioni. È il Fatto quotidiano, con un vibrante articolo di Marco Lillo, a denunciare il “senso di intrusione” che ti colpisce quando ti stanno spiando. Quel che deve aver sofferto Massimo Giletti, quando ha subito per quattro mesi il captatore informatico, il trojan, proprio quello che ha lasciato indifferente, se non entusiasta, il Fatto quando lo spiato era Luca Palamara piuttosto che un anonimo cittadino.
Ma attenti, magistrati, a non spiare un giornalista, o un conduttore tv, perché allora va denunciato, come fa Lillo, “il senso di intrusione in una sfera che dovrebbe restare sacra: il rapporto con le fonti”. E chissà con quante persone ha parlato in quei quattro mesi Massimo Giletti, mentre conduceva le sue puntate con la presenza del gelataio- giocoliere Salvatore Baiardo, quello che lo ha “ingolosito” con un pezzetto di carta fatto vedere da lontano e in penombra, dicendogli che era una foto, e che riprendeva un Silvio Berlusconi degli anni novanta con il generale dei carabinieri Delfino e un boss mafioso di nome Graviano, l’amico protetto dallo stesso Graviano.
Prima lo ha illuso, ma poi ha smentito tutto, al punto di essere destinatario di una richiesta di arresto per calunnia avanzata dai pm, non accolta dal gip ma poi confermata, ai domiciliari, dal tribunale del riesame, e non definitiva in attesa della Cassazione, dove il suo legale, il professor Carlo Taormina, ha presentato ricorso la settimana scorsa. Giletti ha parlato con Cacciari, con Santoro, con tanti altri. Certamente si è intrattenuto soprattutto con Lillo, visto che i due avevano programmato una puntata insieme per ciacolare un po’, come si fa tra amici e “complici” professionali, della responsabilità di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi. Ma la storia di “Non è l’Arena”, la sfida di Giletti alla Rai, dove ora sta forse per tornare sia pure con questo bel fardello sulle spalle, finì così. E la famosa puntata non si fece più.
Urbano Cairo l’ha chiusa e mal gliene incolse, perché, oltre ai costi economici di una trasmissione che non portava ritorni in moneta sonante all’azienda, ha dovuto poi subire anche quelli processuali, con diversi interrogatori della procura di Firenze. E anche un’assurda intrusione, nella sua libertà di imprenditore, da parte di pm e giudici, sul motivo per cui un certo programma è stato aperto o chiuso.
Nel lamentare le “intrusioni” del trojan, Lillo mette un po’ le mani avanti, o forse spera che i magistrati abbiano avuto un occhio di riguardo nei confronti di certe conversazioni, visto che, nell’intercettare Giletti, a Firenze “i pm e il gip hanno fatto il possibile ponendo limiti alla Dia per non trascrivere colloqui non rilevanti o con parlamentari e avvocati”. Ah, ma allora si può? E come mai nella stessa città non si è guardato tanto per il sottile quando l’inchiesta riguardava Matteo Renzi, e a Torino il senatore Stefano Esposito è stato captato per 500 volte, senza che la magistratura chiedesse l’indispensabile autorizzazione parlamentare? Importante questa sensibilità dei magistrati fiorentini, pm a giudice appaiati, come succede nei sistemi in cui i due soggetti, la parte pubblica e il giudicante “terzo”, fanno parte della stessa casta.
Anche se uno voleva mettere le manette a Baiardo e l’altro ha preso le distanze respingendo la richiesta. Ma la calunnia del gelataio nei confronti del conduttore tv c’è stata, hanno stabilito i giudici del riesame, anche se in realtà ci sono solo due diverse versioni su un singolo episodio. Quello che invece non c’è stato, notizia che il Fatto abilmente mette sotto tono, è l’accusa allo stesso gelataio di aver voluto proteggere, con i suoi dico e non dico, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Questo favoreggiamento è inesistente.
Se ne faccia una ragione il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, il più impegnato nell’inchiesta sulle stragi degli anni novanta e i presunti “mandanti”. Inchiesta già riproposta e archiviata almeno quattro volte. La pervicacia del magistrato è stata premiata nei giorni scorsi dal fatto che il ministro Nordio, in risposta a un’interrogazione di Maurizio Gasparri, non ha ritenuto necessario inviare un’ispezione a Firenze. Forse bisognerebbe chiedere al Guardasigilli se sia normale il fatto che la procura sia titolare di un fascicolo processuale che non si chiude mai nei termini previsti dalla legge, ma si apra e si chiuda a comando, a seconda delle dichiarazioni di un personaggio abile nel prendersi gioco dell’interlocutore come Salvatore Baiardo. Perché, sia chiaro, i magistrati non hanno in mano niente altro.
E, nel gioco delle luci e delle ombre, occorre domandarsi anche come mai il Csm, nel confermargli, dopo i canonici quattro anni, l’incarico di procuratore aggiunto, non abbia votato all’ unanimità in favore del dottor Tescaroli, visto che sono mancati i voti dei quattro membri laici nominati da Fratelli d’Italia e Lega. Sarà intanto nelle librerie tra poco il libro del magistrato sui “pentiti”. Chissà se si riferisce solo ai collaboratori di giustizia.