LA POLEMICA

Il compromesso, forse, poteva essere trovato fin da subito, ma il premier ha preferito andare allo scontro

Quando a fine mattinata Giuseppe Conte interviene al convegno organizzato al Senato sull'indipendenza energetica la crisi sembra quasi inevitabile. Il capo dei 5S non arretra di un passo, insiste sulla necessità di arrivare sì al tetto fissato dagli accordi del 2014 con la Nato, spese militari pari al 2 per cento del Pil, però non subito. Non entro il 2024, come indicano quegli accordi ( anche se l'interpretazione che ne dà il governo è diversa) e neppure due anni dopo, ma nel 2030. Altrimenti, pur senza volere la crisi, i 5S sono decisi a votare contro l'aumento della spesa per le armi. Muro contro muro.

Poche ore e i muri si sgretolano. Il ministro della Difesa Guerini conferma l'obettivo ma anche la gradualità invocata dall'ex premier. Obiettivo da centrare entro il 2028. Poco dopo arriva il semaforo verde del Movimento: «Bene così. È un passo verso le nostre posizioni». Potrebbe significare anche un passo verso quell'odg di tutta la maggioranza che il Pd insegue inutilmente da giorni ma la questione in fondo è secondaria: il disgelo, almeno su questo specifico punto, è avviato. Lascia però inevasa una domanda centrale per avanzare ipotesi sul futuro del governo: era davvero impossibile arrivare a questa mediazione senza passare per la drammatizzazione estrema di martedì sera? Non avrebbero potuto chiudere la vicenda Draghi e Conte, nell'incontro faccia a faccia finito invece a pesci in faccia? Esistevano peraltro diverse vie, insieme a quella indicata ieri da Guerini, per smussare gli angoli: davvero non potevano emergere già nell'incontro tra il premier e il suo predecessore?

La risposta è che evidentemente era del tutto possibile evitare la drammatizzazione ma Draghi, cogliendo di sorpresa Conte, ha preferito lo scontro, non ha voluto lasciare a Conte una via d'uscita che gli permettesse di cantare vittoria. Le motivazioni di una simile scelta sono diverse, in parte personali e in parte politiche. I due si sopportano pochissimo. La tensione quando si incontrano è inevitabile: affidare a un colloquio diretto la possibile mediazione è controproducente. Entrambi, inoltre, si trovano in posizione simile. Draghi è uscito ridimensionato dalla battaglia persa per il Quirinale e deve ora recuperare terreno e autorità. Conte non può arrivare alle prossime elezioni come leader di un partito decotto, senza più identità, condannato al ruolo ingrato di vassallo del Pd. Quindi deve puntare i piedi, dimostrare che i 5S hanno identità, ruolo e autonomia. Interessi entrambi legittimi ma confliggenti.

Poi c'è, almeno da parte di Draghi, un calcolo più complessivo. Il premier temeva che, dandola vinta anche solo in apparenza a Conte, avrebbe scoperchiato il vaso di Pandora delle richieste dei singoli partiti su ogni capitolo su ogni legge e decreto, di qui sino al giorno fatidico del voto. Per questo ha scelto di evitare la mediazione e di metterla invece giù quanto più dura possibile, costringendo Conte a quella che appare, in fondo a torto, come una retromarcia, quasi una resa. Sullo stesso Conte, infine, pesa un calcolo politico che non va scambiato per opportunismo: esiste una parte ampia, forse maggioritaria, del Paese che non si riconosce nell'atlantismo radicale di Draghi e di Letta. Oggi, con la eccezione della ex LeU troppo sbandata per essere significativa, quella parte d'Italia è priva di rappresentanza. È inevitabile che Conte si candidi a esserne rappresentante e portavoce.

Tutti questi nodi non sono stati sciolti con il mercanteggiamento di ieri. Esistono e si ripresenteranno. Ma con quali esiti è impossibile dirlo, anche perché dipende solo in misura limitata dagli interpreti che si misurano sul palcoscenico italiano. L'obiettivo di Conte è tenere i piedi in due staffe: rappresentare quella parte di elettorato tirando l'elastico ma senza mai romperlo, un po' come ha provato a fare Salvini sul Green Pass. Il compito dell'ex premier è più facile di quello del leghista, perché non deve vedersela con un competitor agguerrito come è stata Meloni per il leghista. Ma è anche molto più delicato perché il Green Pass era una faccenda italiana, la campagna di Conte si svolge invece sotto lo sguardo attento e anche severo degli alleati occidentali. La possibilità di tirare l'elastico dipende dunque in buona parte dalla situazione sul fronte della guerra guerreggiata e della guerra economica nella quale è impegnato l'occidente. Se il quadro dovesse diventare ancora più drammatico, mantenere l'equilibrio diventerà impossibile.