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Il ministro della Giustizia Carlo Nordio
Tra i tanti piccoli inconvenienti che Carlo Nordio potrà annoverare un giorno nel proprio diario di bordo ministeriale, ci sarà posto anche per l’emendamento sui fuori ruolo formulato nelle ultime ore dai vertici di via Arenula, e destinato al decreto Assunzioni. Poco fa fonti vicine al guardasigilli hanno smentito il carattere “proditorio” o “oscuro” della proposta: si tratta di una “iniziativa ufficiale”, rivendica una nota, informale, arrivata dal ministero, e non di un tentativo più o meno clandestino.
Risponde a precise esigenze, tra cui la necessità di assicurare agli alti ranghi della dirigenza pubblica, e in particolare alla Giustizia, un adeguato numero di figure in grado di “dare compiuta e tempestiva attuazione agli imponenti interventi di riforma programmati nell’ambito del Pnrr”. Detto in altre parole, via Arenula ha ritenuto di precisare che se in effetti l’emendamento sui fuori ruolo avrebbe consentito, per i prossimi tre anni, l’impiego, presso il ministero retto da Nordio, di 10 magistrati in più rispetto alla quota massima di 65 attribuita per legge, tale “redistribuzione” risponde a urgenze inderogabili, ma provvisorie. Non è in pericolo, insomma, la norma delega inserita nella riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario, che prevede di ridurre il numero massimo di toghe impiegabili in funzioni extra-giudiziarie.
È un incidente di percorso quanto meno per l’impatto mediatico che la notizia aveva prodotto prima della nota informale del ministro, peraltro aspramente contestata dal responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, il quale era stato il primo, ieri, a rivelare l’esistenza dell’emendamento. In ogni caso, la vicenda dimostra in termini generali come il rapporto con la magistratura resti, in un modo o nell’altro, la croce, la delizia e diciamo pure il pensiero più intrusivo per Nordio. Non a caso mercoledì sera, nel proprio intervento alla presentazione del libro dell’ex presidente della commissione Stragi Giovanni Pellegrino, il guardasigilli si era soffermato sul rapporto fra il governo e la magistratura, in particolare sul rischio che si possa assistere di nuovo a un «conflitto» come quello registrato alcuni anni, fa con riferimento all’epico scontro fra il secondo esecutivo Berlusconi e l’Anm al tempo della riforma Castelli. No, ha aggiunto Nordio, stavolta ho motivo di confidare che molte delle riforme in arrivo sulla giustizia saranno condivise coi magistrati. Auspicio legittimo, ma che appunto resta sospeso. In realtà Nordio sa bene che la necessità di non strappare del tutto con l’Anm, con le correnti, col mondo togato in generale, è anche il vero punto vulnerabile del governo sulla giustizia, almeno in prospettiva. In particolare, ma non solo, per quello snodo delicatissimo che riguarda l’unica riforma costituzionale annunciata per ora dal guardasigilli, la separazione delle carriere.
Direte: possibile che Nordio sia intimidito nel procedere sul “divorzio” fra giudici e pm perché teme l’ira dell’Anm? Non è esattamente così. Il punto è che sarebbe Giorgia Meloni a non tollerare, a considerare del tutto inopportuno, uno scontro all’ultimo sangue fra toghe e governo sulla riforma costituzionale della giustizia. E quindi la netta contrarietà dei magistrati all’epocale riassetto delle loro carriere è, per i riflessi che si proiettano persino su Palazzo Chigi, fortemente a rischio. Non è un caso che Meloni abbia risposto con chiarezza a Calenda quando, martedì scorso, il leader di Azione le ha chiesto di abbinare la separazione delle carriere alle riforme istituzionali: meglio non sovrapporre ambiti diversi, ha detto la presidente del Consiglio.
Politica e giustizia, dunque, non devono entrare in collisione. Ma così, evidentemente, Nordio rischia di dover rinunciare al suo progetto più ambizioso. E poi, è assai probabile che un certo stridore fra governo e magistratura si registrerà anche su altre proposte di riforma. Forse non su quelle annoverate, almeno secondo le ipotesi avanzate fin qui dallo stesso ministro e dal suoi vice Francesco Paolo Sisto, nel primo ddl, che dovrebbe essere sul tavolo di Palazzo Chigi tra fine maggio e inizio giugno. Del primo slot dovrebbero far parte la revisione dell’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze, nuove norme sull’informazione di garanzia e sul primo interrogatorio a cui sottoporre l’indagato, in modo da anticiparlo, per i reati in cui è ragionevolmente possibile, rispetto all’eventuale esecuzione di misure cautelari.
E ancora, potrebbero arrivare nel primo pacchetto anche il ripristino della prescrizione sostanziale e un primo intervento sulle intercettazioni. Tranne forse che per l’ultima voce, non si tratta di dossier particolarmente critici, rispetto ai rapport con la magistratura. Ma poi si passerà ad altre misure, come il divieto, per i pm, di ricorrere in appello contro le assoluzioni, i decreti attuativi della riforma de Csm e la stretta sui costi massimi delle stesse intercettazioni. Lì la musica sarà diversa. E quel rischio che Meloni scelga di non giocarsi l’equilibrio dell’ecosistema politico in una sfibrante tensione quotidiana con le toghe, comincerà a farsi concreto.