LO SCENARIO

Le intenzioni iniziali erano chiare e indiscutibili: Giorgia Meloni ha iniziato la sua avventura di governo decisa a dissipare ombre e sospetti di populismo scassatutto e ad affermarsi come leader italiana ed europea di una destra conservatrice ma istituzionale, radicale ma solo all'interno di un perimetro accettato da tutti.

La premier voleva dissipare ombre e sospetti di populismo per affermarsi come destra istituzionale Quella rissa con Bruxelles e Palazzo Koch che mette già all’angolo il governo Meloni

La premier era decisa a dissipare ombre e sospetti di populismo scassatutto e ad affermarsi come leader di una destra conservatrice ma istituzionale. Ma questo scontro complica le cose

LA PEGGIOR CONSEGUENZA SAREBBE QUELLA DI FARSI TRASCINARE IN UNA SERIE INFINITA DI POLEMICHE CON LE ISTITUZIONI UE

Le intenzioni iniziali erano chiare e indiscutibili: Giorgia Meloni ha iniziato la sua avventura di governo decisa a dissipare ombre e sospetti di populismo scassatutto e ad affermarsi come leader italiana ed europea di una destra conservatrice ma istituzionale, radicale ma solo all'interno di un perimetro accettato da tutti come indiscutibile dal punto di vista degli equilibri democratici e del rispetto di regole e istituzioni. È lecito chiedersi se e quanto a lungo potrà reggere un ruolo che non è affatto facile.

Gli ostacoli sono diversi e il primo è la mentalità politica, le attitudini e le abitudini, degli stessi dirigenti del suo partito. Lunedì Bankitalia ha sferrato un attacco molto duro contro la manovra di questo governo. Si può discutere di quanto fosse proporzionata una simile offensiva, tenendo conto dell'esiguità della manovra, al netto dei 21 miliardi che saranno spesi per fronteggiare sino a marzo la crisi energetica senza scostarsi di un millimetro dal solco di Draghi. È comprensibile che una critica così acuminata a una legge di bilancio così modesta, in un momento già molto teso, abbia molto innervosito la squadra di palazzo Chigi. Resta il fatto che la replica del sottosegretario Fazzolari, non uno qualsiasi ma la figura più vicina alla premier nel governo, è stata a dir poco fuori dalle righe e quasi sguaiata. Probabilmente neppure Salvini e i 5S del 2018 sarebbero arrivati a dire, dagli spalti del governo e senza pensarci su due volte, che se si viene attaccati da Confindustria, sindacati e Bankitalia vuol dire che si è nel giusto. Passi per i primi due soggetti ma un governo che si vanta di essere criticato dalla Banca centrale e accusa via Nazionale di essere al servizio delle banche private spalanca un cancello al conflitto istituzionale.

Palazzo Chigi si è affrettato a spegnere l'incendio correggendo Fazzolari ma la ferita non è di quelle che passano senza lasciare cicatrici e in ogni caso la vicenda non depone a favore della tenuta nervosa del governo nei momenti critici o delicati.

ILa gaffe è tanto più clamorosa se si pensa che sull'argomento principale della contesa, il tetto per l'accettazione obbligatoria del Pos, il governo è vicinissimo a una mezza retromarcia. Non eliminerà il tetto, perché il cedimento sarebbe una prova di debolezza imperdonabile, ma molto probabilmente lo porterà da 60 a 40 o 30 euro. L'invettiva di Fazzolari è suonata così non solo come istituzionalmente sguaiata ma anche come resa stridula dall'impotenza.

Il cedimento nervoso non si limita alle tensioni interne. Ieri il ministro Urso ha usato parole incendiarie a proposito dei ritardi della Ue nel varare un piano di aiuti contro il caro energia, ricordando che la richiesta era già stata avanzata dal governo Draghi. Nel merito Urso ha tutte le ragioni: nella crisi energia, all'opposto che in quella Covid, la Ue sta dando una prova sconsolante ed è vero che le richieste e le esortazioni di Draghi sono rimaste per lo più lettera morta. Ma è anche vero che la reazione di Draghi, anche quando gli è toccato masticare amaro, è sempre rimasta rigorosamente controllata. Non perché l'ex presidente della Bce fosse debole ma, al contrario, perché conosceva la Ue e le sue dinamiche e sapeva che lo scontro aperto non è una tattica vincente. È l'opposto esatto.

Giorgia Meloni non è arrivata al governo in un momento facile ma doveva saperlo e di certo ne era ben consapevole. Non potevano esserle ignoti i ritardi nei 55 adempimenti del Pnrr dai quali dipende l'accesso alla prossima tranche del Next Generation Eu, perché nel Palazzo non erano ignoti a nessuno. Sa perfettamente che l'anno prossimo, quando si tratterà di passare alla fase pratica e costruttiva del Pnrr, le difficoltà saranno anche maggiori, sia per l'atavica incapacità italiana di investire i fondi europei sia per le enormi difficoltà aggiuntive prodotte dall'aumento del prezzo delle materie prime. Sa, o dovrebbe sapere, che a non farle sconti, anzi a lucrare sul prezzo, non sarà solo l'opposizione ma una parte sostanziosa dell'establishment in Italia e saranno i principali Paesi europei, ben coscienti di quanto un successo del governo italiano rafforzerebbe la destra nei loro Paesi. La peggior reazione possibile sarebbe quella di perdere il controllo e farsi trascinare in una serie infinita di polemiche e scontri con le istituzioni italiane ed europee. La credibilità e la saldezza del suo governo dipendono oggi, in misura non secondaria, dalla capacità di restare fredda e non farsi trascinare nella rissa anche in una fase oggettivamente di estrema difficoltà.

«Io non ho denunciato per quel tipo di reato e se alla fine del dibattito in udienza preliminare sarà davvero solo quella la contestazione mi riservo di fare valutazioni perché quel tipo di reato credo sia procedibile solo con querela di parte - ha commentato Renzi - Se davvero fosse soltanto quello l’argomento io per primo rifletterei: voglio capire alcune cose che non mi tornano. Tra queste, «la versione di questa sedicente professoressa che cambia quattro volte». E sulla richiesta della donna di un incontro ha risposto «volentierissimo». «Lo faremo in sede di udienza preliminare dove noi chiederemo di interrogarla - ha concluso Io ho delle cose che non mi tornano e che voglio esporre al

gup».