Uno non ha mai digerito lo sfratto da Palazzo Chigi, l’altro la strada sbarrata per il Colle

È finita all'italiana, i tarallucci e il vino dopo i musi duri, le minacce, la rottura sfiorata? Oppure è solo una tregua e le lame di Mario Draghi, inquilino attuale di palazzo Chigi, e di Giuseppe Conte, predecessore sfrattato, si incroceranno di nuovo prima che le bombe e i cannoni si decidano a tacere in Ucraina? Per una risposta certa ci vorrebbero doti di preveggenza ma la seconda ipotesi e quanto meno più probabile dell'altra.

Chiamare in causa le disposizioni d'animo personali, insomma la ruggine e i pessimi rapporti, per una volta non è gossip. La reciproca ostilità pesa suli rapporti tra il premier e il leader del principale partito di maggioranza e in una certa misura fa, se non ' la' differenza, almeno ' una' differenza. Conte non ha mai perdonato a Draghi l'aver preso il suo posto. Lo sospetta, probabilmente non a torto, di aver preso parte, se non attivamente almeno garantendo la propria disponibilità a guidare un nuovo governo, alla manovra che lo ha defenestrato. Draghi non ha perdonato a Conte l'avergli sbarrato più di chiunque altro e in modo più decisivo, la strada verso il Quirinale. Tra i due non può correre e mai correrà buon sangue.

Le reciproche debolezze spingono a loro volta in direzione poco pacifica. Draghi è uscito indebolito e ridimensionato dalla cocente sconfitta nella corsa alla presidenza. In fase di ' campagna elettorale', inoltre aveva allentato le redini trattando con i partiti molto più di quanto non avesse fatto nei mesi precedenti. Gli stessi partiti, con l'uscita dal tunnel Covid ormai in vista, erano decisi a reclamare un ruolo ben maggiore di quello, per la verità inessenziale, al quale li aveva costretti il decisionismo del premier. Con la guerra a rimpiazzare la pandemia come emergenza assoluta e con il rischio che la campagna elettorale moltiplichi la fibrillazione di ogni singola forza di maggioranza, Draghi deve per forza stringere le maglie e cercare di imporre di nuovo la sua guida assoluta e se ciò non pare destinato a creare tensioni con Pd, Fi e Iv il discorso è diverso per quanto riguarda la Lega e LeU ma soprattutto i 5S. Come forza di maggioranza relativa e allo stesso tempo come partito travolto da una crisi che ne ha azzerato il dna i 5S di Conte non possono permettersi di arrivare alle elezioni completamente cancellati e senza voce in capitolo.

Conte si trova di fatto solo ora a guidare davvero un Movimento privato di ogni identità e alla ricerca di una sua ragion d'essere. La guerra e la crisi ucraina offrono all' ' avvocato del popolo' un'occasione probabilmente irripetibile ma anche una sorta di ultima chance. C'è una parte molto vasta dell'elettorato, pacifista e se non contraria alla Nato certamente non allineata con l'atlantismo totale del governo, rimasta senza rappresentanza politica. Non cogliere l'occasione proponendo il suo Movimento come candidato a quella rappresentanza sarebbe per Conte suicida. Se Draghi è costretto a concedere poco spazio ai partiti per quanto riguarda crisi e rapporti con Nato e Ue, Conte è altrettanto costretto a reclamare presenza e ruolo proprio su quello stesso fronte.

Allo stesso tempo, il leader dei 5S sa che non può tirare troppo la corda senza compromettere il rapporto con il Pd che è a tutt'oggi la sola sponda di cui dispone per le prossime elezioni. È vero che i segnali di riavvicinamento tra gli ex alleati giallo- verdi si sono moltiplicati a partire dall'asse sulla presidenza della Repubblica ma il quadro politico non permette, o forse non permette ancora, di ipotizzare un ritorno a quell'alleanza. Dunque Conte dovrà esercitarsi in quel rischioso gioco di prestigio che è il partito ' di lotta e di governo', trovandosi di fronte un Draghi che proprio di quella formula, soprattutto con gli occhi di Washington e Bruxelles puntati addosso, non vuole neppure sentir parlare.

Le tensioni degli ultimi giorni sono dunque destinate probabilmente a ripetersi ma a quale livello e con quante possibilità di essere comunque governate e tenute sotto controllo dipenderà, ancor più che dai due leader in questione, dalla situazione oggettiva della guerra e della crisi, dal suo evolversi verso una soluzione oppure, al contrario, da una sua ulteriore drammatizzazione che renderebbe le cose a Roma molto più difficili.