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La commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha approvato un emendamento al ddl Sicurezza con il quale il termine per proporre impugnazione avverso i provvedimenti di prevenzione viene ampliato da dieci a trenta giorni. È una buona notizia?
In apparenza sì, perché accorda al difensore ( e al pm, come ripetutamente ricordato nel verbale di seduta del commissione) più tempo per studiare e “aggredire” provvedimenti che, sovente, hanno contenuti tecnico- contabili che esulano dalle competenze medie di un giurista e, non raramente, presentano motivazioni molto complesse, per la cui stesura il giudice può stabilire un termine fino a 90 giorni.
Una boccata di ossigeno, verrebbe da dire. Occorre superare l’apparenza e dire la verità.
Un termine di trenta giorni è quello “minimo sindacale” per l’impugnazione di qualsiasi provvedimento giurisdizionale a motivazione differita. Di trenta o quarantacinque giorni è, infatti, quello per l’appello o il ricorso per Cassazione penale ( a meno che le motivazioni della sentenza gravata non vengano depositate in udienza). La anormalità era nel subire tempi così contratti. L’ipocrisia era sostenere che ciò fosse compatibile con l’effettivo esercizio del diritto di difesa ( che dovrebbe passare anche dalla concreta possibilità di “studiare le carte”). Dobbiamo allora gioire per aver raggiunto, a stento, la normalità? Dobbiamo compiacerci del fatto che, per vincere l’ipocrisia, ci sia voluto l’impegno senza quartiere di alcuni volenterosi parlamentari, che stanno cercando di squarciare quel velo di menzogne che avvolge l’esercizio dell’azione di prevenzione? O, piuttosto, questo risultato dovrebbe allarmarci?
In Parlamento giacciono da mesi, all’esame delle commissioni, progetti di legge che vorrebbero modificare la struttura del procedimento, in particolare impedendo la confisca nei confronti di soggetti assolti all’esito del procedimento penale e innalzando lo standard probatorio per il proponente a quello richiesto per le misure cautelari.
E questa stasi parlamentare avviene mentre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo continua a segnalare, come già in passato, le criticità evidenti di un sistema processuale che non garantisce l’equilibrio del contraddittorio, che inverte l’onere della prova, che mistifica una sanzione patrimoniale di chiara natura penale per una di tipo amministrativo/ ripristinatorio. Molti sono i ricorsi pendenti, e le prospettive di mantenimento dello status quo sono tutt’altro che rosee. E mentre il mondo intorno rischia di crollare, la nostra preoccupazione non può e non deve essere il termine per proporre appello.
In primo luogo, perché il procedimento di prevenzione è ( volutamente?) strutturato per non garantire un esito “giusto”: il diritto alla prova è, per il “proposto”, limitato e ricco di ostacoli; il ricorso alle presunzioni è previsto dalla Legge e agevolato dalla giurisprudenza ( ad esempio, sulla valenza probatoria delle tabelle Istat); la prova non si forma nel contraddittorio; non si applicano le regole di giudizio ( 192 cpp; 533 cpp e altre) proprie del sindacato penale; il giudicato è instabile per il pm, molto meno per il privato; il ricorso per Cassazione è limitato alla sola violazione di legge. Cosa cambia avere dieci o cento giorni in più per impugnare i decreti, se non si rettifica drasticamente il metodo di accertamento e non si eliminano quei vastissimi spazi di arbitrio che governano il convincimento dei Tribunali e delle Corti di appello?
In secondo luogo, perché continuare a “rubacchiare” dal processo penale alcuni simulacri del giusto processo ( ad esempio, quel minimo di diritto alla prova, oppure l’obbrobriosa revocazione, che è “processual- penalistica” nei modi e “processual- civilista” nei casi) non nobiliterà mai la prevenzione, che è costruita sull’inganno della sua doppiezza, destinato com’è a dare allo Stato una seconda occasione per colpire il cittadino di turno, con i medesimi effetti della sanzione penale, ma con modi spicci.
È come ripulire un’arma insanguinata: la si rende sopportabile alla vista, ma non si cambia la sua natura.
Infine, perché le operazioni di semplice maquillage rischiano di obnubilare le coscienze dei giuristi, che invece dovrebbero insorgere contro questo novello Erisittone, un essere destinato a divorare se stesso dopo aver devastato tutto ciò che lo circonda. Uno strumento che, per dirla con Tullio Padovani, rappresenta “la violazione più manifesta, conclamata, intollerabile, assurda e vergognosa del diritto europeo”, ovvero un “mostro da eliminare per ristabilire le condizioni di legalità nel nostro Paese”.
Esultare, o anche solo essere soddisfatti, per aver ricevuto ciò che, invece, non ci sarebbe mai dovuto essere negato costituisce il paradigma della frode ( delle tante frodi, a dire il vero) su cui si regge la prevenzione, il cui futuro non è, speriamo, nei ritocchi estetici, ma nella mani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il mugnaio dell’opera di Bertold Brecht trovò il suo Giudice a Berlino. Noi confidiamo di averlo trovato a... Strasburgo.