«Di fronte alle numerose dichiarazioni errate recentemente pubblicate su alcuni media e relative a questo caso, la Procura federale ricorda che la Giustizia deve poter svolgere il proprio lavoro con tranquillità. Non è necessario in questa fase dell'indagine, che dovrebbe essere segreta, esporre le strategie investigative, anche se le continue fughe di notizie che ancora una volta deploriamo portano a interpretazioni spesso azzardate». A scriverlo è la procura federale belga. Che dopo i numerosi articoli pubblicati sui media di tutto il mondo sull’ormai imminente richiesta di revoca dell’immunità parlamentare di Maria Arena ha deciso di fare un passo avanti, adottando un metodo diverso da quello precedentemente adottato dal giudice istruttore dimissionario Michel Claise: per investigare sull’eurodeputata socialista belga non è necessaria alcuna revoca dell’immunità. Insomma, due pesi e due misure, se si pensa, a titolo d’esempio, ad un altro belga coinvolto nella vicenda, Marc Tarabella, arrestato senza alcuna prova. Ma di quali fughe di notizie parla la procura federale? Nei giorni scorsi diversi quotidiani, tra i quali il Dubbio, hanno pubblicato alcune rivelazioni relative alla posizione di Arena. I verbali relativi al suo coinvolgimento sono rimasti per un anno in embargo per volontà di Claise, che poi ha lasciato l’inchiesta dopo che alcuni avvocati hanno svelato i legami tra suo figlio e quello dell’europarlamentare. Dettagli che hanno spinto in molti a chiedersi se ci fosse una volontà di tutelare la politica belga. Anche perché è proprio il suo il nome che il superpentito Antonio Panzeri, principale indagato, ha fatto subito, salvo poi scagionarla da ogni coinvolgimento. «Se ci sei tu allora io raccolgo più soldi», diceva Panzeri ad Arena in un’intercettazione. E quest’ultima - che stando ai verbali dei servizi sarebbe stata anche omaggiata con un rolex e una collana - era stata anche ascoltata al telefono con l’ambasciatore di Rabat in Polonia, Abderrahim Atmoun, al quale diceva che suo figlio Ugo Lemaire stava per intraprendere un viaggio in Marocco. Il diplomatico si mise a disposizione: Ugo poteva chiamarlo e «dire di avere uno zio ambasciatore». A questi dettagli se ne sono aggiunti altri: nei giorni scorsi sono stati resi noti da parte di alcuni quotidiani belgi gli esiti di alcune perquisizioni effettuate a luglio a casa dell’europarlamentare e di suo figlio. Stando a quanto riporta 7sur7, il 19 luglio gli inquirenti hanno scoperto un carnet rosso contenente cinque banconote da 50 euro, 36 da 20 euro e 28 da 10 euro. A casa del figlio la polizia ha trovato invece 280mila euro e hashish. Il 24 luglio, invece, sono stati perquisiti un box e una cassaforte utilizzati da Ugo Lemaire e sono stati rinvenuti polvere bianca, una bilancia di precisione, veicoli e localizzatori Gps. Il suo fascicolo è nelle mani della squadra narcotici. E non sarebbero esclusi collegamenti con il Qatargate.

Che Arena possa continuare a svolgere serenamente il proprio lavoro è cosa giusta. Stupisce, però, che ci si sia ricordati delle garanzie solo un anno dopo il deflagrare dell’inchiesta. Le stesse cautele, infatti, non furono adottate per l’ex vicepresidente Eva Kaili, per la quale si sono aperte le porte del carcere. Nonostante la presenza di una bambina piccola il cui padre, coinvolto nell’inchiesta, era a sua volta finito dietro le sbarre. Nel caso dell’europarlamentare belga, «data l'importanza dei mezzi di’inchiesta» a disposizione della procura, si legge in una nota, «una revoca dell’immunità parlamentare non è giustificata al momento». Insomma, un trattamento “garantista” - e corretto - di cui però non hanno potuto beneficiare tutti. E ciò nonostante lo stesso procuratore federale abbia sottolineato che «la stragrande maggioranza degli atti di informazione o d’istruzione non richiedono una richiesta di rinuncia all'immunità parlamentare». Insomma, si sarebbe potuto verificare l’esistenza di una rete di corruzione anche senza mettere a soqquadro il Parlamento europeo.

Kaili, come già sottolineato dal Dubbio, non è stata oggetto dell’inchiesta fino al giorno del suo arresto. I servizi segreti - che si sono spinti fin dentro la sede dell’Europarlamento in borghese - avevano annotato l’impossibilità di stabilire un collegamento con gli affari presunti di Panzeri. E così è stato fino al giorno in cui in casa sua è stata ritrovata una valigia piena di soldi, sui quali però non ci sono le sue impronte. L’ex vicepresidente è rimasta in carcere quattro mesi, mentre sui giornali finiva di tutto. 0 «Non ho mai visto un tale grado di assunzione di violazioni frontali del segreto istruttorio. Non sono l'unico a pensarlo. Il procuratore federale ha avviato un'inchiesta al riguardo», aveva commentato pochi giorni dopo l’arresto André Rizopoulos, uno dei legali di Kaili. La fuga aveva riguardato soprattutto l’Italia, dove i giornali pubblicarono atti e intercettazioni cercando di ricostruire la rete dei nomi delle persone coinvolte in quello che veniva definito il più grande scandalo della storia delle istituzioni europee. Sui giornali, dunque, finirono anche soggetti non coinvolti formalmente nell’inchiesta, ma costretti a temere di finire nella rete. Ma chi fece circolare quelle carte? Impossibile stabilirlo e a quanto pare l’inchiesta della procura sul punto non ha prodotto alcun esito. Quel che è certo, stando alla tempestività con la quale vennero resi noti i dettagli, è che la stampa conosceva le carte ancora prima degli indagati. Ai quali, prima ancora di sapere se sarebbero stati solo interrogati o arrestati, era stata fatta una radiografia completa. Ora che la nave sembra affondare, anche l’atteggiamento della stampa è radicalmente mutato. E coloro che, inizialmente, avevano salutato l’inchiesta come la più imponente del secolo cominciano a porsi domande. Finalmente.