Il bavaglio? Illegale, dicono i giudici belgi, ma rimetterlo non è un problema. Il caso Qatargate, lo scandalo sulla presunta corruzione internazionale consumata nelle stanze dell’Europarlamento per favorire il Qatar e il Marocco con risoluzioni favorevoli, è ormai giunto al parossismo. Con la possibilità, per la giustizia belga, di limitare una delle libertà fondamentali - quella di espressione, pena l’arresto - per ragioni che, stando ai giudici della “Chambre des mises en accusation” sono illegali, ma che possono essere riproposte per reiterare la misura senza alcun problema.

Per comprendere la questione è necessario riavvolgere il nastro. E tornare al 6 febbraio, giorno in cui la procura ha notificato a Francesco Giorgi, ex braccio destro del super pentito Pier Antonio Panzeri, e Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento europeo, le limitazioni alle quali sottostare. Tra queste il divieto di comunicare con la stampa, imposto non solo agli indagati, ma anche ai loro avvocati. Condizioni, queste, che erano state imposte a dicembre scorso anche all’eurodeputato belga Marc Tarabella. Tarabella, dal canto suo, ha impugnato la decisione e il 14 febbraio scorso si è visto dare ragione dai giudici: il divieto di non parlare con la stampa per mantenere un “clima sereno” - questa la motivazione addotta dalla procura per giustificare il “bavaglio” - «non è conforme ai requisiti legali», hanno sentenziato i giudici della “Chambre des mises en accusation” , che avevano dunque restituito il diritto di parola all’europarlamentare. In questo travagliato gioco dell’oca, la tappa successiva è quella del 20 marzo, giorno in cui la difesa di Giorgi ha depositato la propria di richiesta, contestando il tentativo di impedire all’ex assistente parlamentare di difendersi: di fronte alla collaborazione offerta agli inquirenti sin dal principio, i nuovi divieti sono apparsi alla difesa di Giorgi privi di senso. Anche perché non esistono dichiarazioni pubbliche dell’ex braccio destro di Panzeri, a fronte delle innumerevoli fughe di notizie a lui sfavorevoli.

Così a pesare sulla scelta di imporgli il silenzio sembra essere altro. Ovvero il fatto di aver depositato (proprio il 5 febbraio, giorno precedente all’imposizione del “bavaglio”) un audio nel quale si sente la voce del capo degli investigatori ammettere che Panzeri non è credibile. Dichiarazione potenzialmente devastante, dal momento che sono proprio le parole dell’ex europarlamentare italiano a rappresentare l’architrave dell’inchiesta, recentemente minata dalla decisione della giustizia italiana di archiviare la posizione dell’ex leader della Cgil Susanna Camusso, tra le persone tirate in ballo da Panzeri. Il giorno successivo all’impugnazione di Giorgi, la giudice istruttrice Aurélie Dejaffe - che ha sostituito il collega Michel Claise dopo che proprio la difesa di Tarabella aveva svelato il rapporto di affari tra suo figlio e quello dell’eurodeputata Maria Arena, indagata solo dopo diversi mesi - ha fatto la sua mossa: anziché attendere la sentenza, ha emesso una nuova ordinanza, con la quale, di fatto, ha reiterato gli stessi divieti già contestati agli indagati. Ma non solo: tra i destinatari dei divieti c’è anche Tarabella, l’unico al quale i giudici avevano già dato ragione. E anziché impugnare quella decisione, la procura ha deciso di produrre “nuovi” divieti. Nella sua ordinanza, Dejaiffe ha tentato di superare le obiezioni della “Chambre des mises en accusation” sostenendo che permane il «rischio di collusione con terzi» e «alla luce della forte mediatizzazione, sempre attuale, di cui è oggetto la presente indagine». Motivi per i quali, scriveva Dejaffe, fino al prossimo giugno «è necessario limitare i contatti dell’imputato con la stampa, per consentire all’indagine di continuare nel clima più sereno possibile». Nulla di nuovo, dunque: l’ordinanza rimane identica a prima, nonostante sia già stata definita illegale.

Le nuove mosse di Dejaffe hanno spiazzato i giudici: il 5 aprile il Tribunale ha respinto il ricorso di Kaili, sostenendo, in concreto, che la libertà di espressione dell’europarlamentare «può essere giuridicamente limitata» per evitare «fughe di notizie» e «collusioni indirette», al fine «di consentire il proseguimento sereno dell’istruttoria», scriveva il giudice Jan Ramaekers. Nella sua ordinanza viene ribadita, di fatto, la tesi della procura, secondo cui le fughe di notizie sarebbero causate dagli indagati ed evidentemente anche dai loro avvocati, anch’essi imbavagliati. Una circostanza negata dalle evidenze, dal momento che l’inchiesta è stata caratterizzata sin dal principio dalla diffusione di atti coperti da segreto e sfavorevoli alle difese, che sono riuscite ad ottenere quattro scatole di atti non riversate nel fascicolo solo dopo la diffusione dell’audio registrato da Giorgi. Ma non solo: a causare una possibile collusione è stata proprio l’autorità giudiziaria, che ha tenuto per tre giorni in cella insieme, per errore, Panzeri e Giorgi. Tutti elementi confluiti nella richiesta, da parte delle difese, di valutare la regolarità delle indagini. Ieri, poi, è toccato a Giorgi: bavaglio confermato anche per lui. Dal momento che la Dejaffe aveva emesso una nuova ordinanza, infatti, l’impugnazione della prima è stata superata dai nuovi divieti. Che, però, sono identici a quelli precedenti. Un cortocircuito che ha spinto Giorgi, nelle scorse settimane, a ricusare la giudice. Ora toccherà ad altri giudici decidere chi ha ragione.

Nel frattempo, rimangono senza risposta le sue interrogazioni al Parlamento europeo, tra le quali proprio quella relativa alla violazione della libertà di espressione in Belgio, «uno dei cinque diritti fondamentali» della Carta dei diritti dell’uomo dell’Unione europea. «Uno Stato membro dell’Ue - chiede Kaili - può limitare la libertà di espressione dei singoli e dei politici? La commissione intende adottare misure per evitare che simili flagranti violazioni dei diritti dell’uomo si ripetano in Belgio?». Interrogazioni alle quali se ne aggiunge un’ultima, pubblicata sul sito dell’Europarlamento pochi giorni fa e che ha a che fare con il trattamento riservatole in qualità di madre al momento del suo arresto, durato quattro mesi: «Nella sua risoluzione del 15 dicembre 2011 sulle condizioni di detenzione nell’Ue - scrive Kaili -. il Parlamento ha riaffermato “l’importanza di garantire una protezione specifica alle madri detenute e ai loro figli, anche attraverso il ricorso a forme di detenzione alternative nell'interesse superiore del bambino”, e ha invitato “gli Stati membri e la Commissione a promuovere e sostenere attivamente tali iniziative”. Ci sono casi in Belgio che violano la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell'infanzia e rafforzano i dubbi sull'intenzione del paese di rispettare i suoi obblighi internazionali. Alla luce di quanto sopra, la Commissione è a conoscenza di casi in cui i diritti della madre non sono stati tutelati e le madri detenute sono state separate dai loro figli? La Commissione intende adottare misure per evitare che simili palesi violazioni dei diritti umani si ripetano in Belgio?».