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ROBERTO SCARPINATO, SENATORE DEL MOVIMENTO 5 STELLE
C’è un filo sottile che separa l’inchiesta dalla manipolazione, la verità dalla rappresentazione teatrale. Quando questo confine sfuma all’interno delle istituzioni preposte alla lotta alla mafia, il rischio è che un organo politico come la Commissione antimafia diventi un luogo privatistico, piegato a interessi personali.
È quanto emergerebbe dalle intercettazioni che hanno coinvolto il senatore pentastellato Roberto Scarpinato e l’ex magistrato Gioacchino Natoli, indagato dalla Procura di Caltanissetta per aver presumibilmente insabbiato indagini scaturite da una segnalazione dell’allora procuratore Augusto Lama di Massa Carrara sui rapporti tra i mafiosi Salvatore e Antonino Buscemi e la Ferruzzi-Gardini, una delle tante multinazionali in affari con Cosa nostra. Parliamo degli stessi nomi già citati nel rapporto “mafia–appalti” redatto dai Ros su impulso di Giovanni Falcone.
Il linguaggio che inquieta
«Ho intenzione di seppellire la Colosimo sotto una montagna di documenti». Non sono parole pronunciate da personaggi oscuri, ma dal senatore Scarpinato, componente della Commissione antimafia, intercettato mentre parlava con Natoli in vista della sua audizione. Il riferimento è alla presidente della Commissione, Chiara Colosimo.
Se una frase del genere fosse stata pronunciata dall’ex generale Mario Mori in veste da commissario per preparare un collega a un’audizione, si sarebbe scatenato un putiferio. Lo stesso Scarpinato, che lo processò invano più volte, avrebbe parlato di “atto eversivo”, di tentativo di condizionare i lavori parlamentari. Ma quando a usare quel linguaggio è lui, in un comunicato sostiene che non c’è nulla di male e rivendica di aver agito così: inviando memorie per spingere la Commissione verso altre tesi ritenute da lui valide. Anche se, oggettivamente, risultano prive di dignità processuale.
Non è solo questione di parole, già di per sé gravi. È il metodo che colpisce: l’idea di “seppellire” un’inchiesta sotto una montagna di documenti richiama tecniche già viste. Carte su carte: prima la trattativa Stato-mafia come causa delle stragi, poi la pista nera, prima ancora Berlusconi, ora un ex parlamentare come Guido Lo Porto, all’epoca nel Movimento Sociale Italiano. Un meccanismo che offusca il quadro generale e rischia di far perdere il filo delle indagini più serie.
Scarpinato, nel suo comunicato, arriva perfino a definire la causale “mafia-appalti” dell’accelerazione della strage di via D’Amelio come una tesi di Mori e della destra parlamentare. Una falsità. Non è una tesi, ma un fatto confermato da tutte le sentenze sulle stragi, sia di Capaci che di via D’Amelio. Lo stesso presidente del tribunale di Palermo, Angelo Pellino, è stato costretto a scriverlo nero su bianco nella sentenza di secondo grado sulla (non) trattativa Stato-mafia.
Conflitti di interesse che nessuno vede
Ma c’è dell’altro. Scarpinato non è un osservatore esterno di ciò che la Commissione antimafia sta esaminando. Insieme a Guido Lo Forte, è stato il magistrato titolare del procedimento “mafia-appalti”. Furono proprio loro a chiederne l’archiviazione. Un fascicolo che Borsellino considerava decisivo e collegava direttamente alla strage di Capaci. Non sono suggestioni, ma documenti, testimonianze e azioni investigative.
Altro che archiviazione di personaggi marginali. Furono archiviate le posizioni dei vertici delle grandi imprese coinvolte e di mafiosi come i fratelli Buscemi o Pino Lipari, quest’ultimi con poche righe di motivazione. È vero che in seguito furono riaperte inchieste e procedimenti che portarono a condanne, ma attraverso passaggi dilatati negli anni, tanto che gli strascichi sono proseguiti fino agli anni Duemila. Come scrissero i magistrati nisseni in “Mandanti occulti bis”, l’archiviazione del ’92 provocò uno “scompenso”. Basti pensare ai Buscemi, processati e condannati solo grazie al procedimento confluito nell’ordinanza del 1997: Giuseppe D’Avanzo, in una sua inchiesta a puntate, denunciò che così i mafiosi ebbero “anni di vantaggio”.
Un altro nodo porta alle indagini di Massa Carrara. In quell’ordinanza del ’97 comparve finalmente tutto l’incartamento del procuratore Lama e dell’investigatore Franco Angeloni. Borsellino, già nell’aprile ’92, aveva consegnato la seconda informativa di Lama non a Natoli, ma a Lo Forte e Pignatone. Come può un senatore che è stato titolare del dossier “mafia-appalti” - e che ha lavorato per screditare la ricostruzione scrupolosa dell’avvocato Fabio Trizzino, portavoce dei figli di Borsellino - sedere in una Commissione chiamata a valutare proprio quegli eventi? Il conflitto di interessi è evidente, ma resta la sua abilità nel presentarsi come vittima.
La rappresentazione teatrale
Poi c’è la riunione del 14 luglio 1992, l’ultima di Borsellino. Perché Scarpinato insiste tanto perché Natoli la racconti? Perché lì si giocava la partita sul dossier “mafia-appalti”, di cui era titolare con Lo Forte. Nelle audizioni del ’92 non emerge che Borsellino fosse stato informato dell’archiviazione. Scarpinato, dal mio processo in poi, ha rivelato per la prima volta di averglielo comunicato un mese prima. Oggi scopriamo che in realtà lo apprese il 14 luglio. Un dettaglio che non torna, visto che lo stesso Borsellino chiese una nuova riunione per approfondire il tema alla luce delle dichiarazioni di un nuovo pentito.
Le intercettazioni mostrano anche altro: la preparazione coordinata delle audizioni. Natoli chiede a Scarpinato suggerimenti prima di comparire in Commissione. Non un semplice scambio tra colleghi, ma una scaletta, con consigli su come non sembrare troppo affiatati. Con un dettaglio surreale: a dare dritte è lo stesso avvocato che assiste entrambi. Lo stesso legale che rappresentò Scarpinato e Lo Forte nel processo per diffamazione contro il sottoscritto, sfociato in una condanna in primo grado per la mia inchiesta a puntate del 2018 proprio su “mafia-appalti”.
Non siamo davanti solo a conflitti d’interesse macroscopici, ma a una trama che somiglia a una sceneggiatura: ruoli assegnati, azioni concordate, battute preparate. E tra una frase e l’altra spunta persino uno sberleffo ai deputati del Pd: al nome di Walter Verini scoppiano in una risata.
La memoria che vacilla
C’è un aspetto quasi grottesco: come già scritto su Il Dubbio, l’audizione di Natoli si è rivelata un disastro. Dalla genesi di “mafia-appalti” a Falcone, fino alla riunione del 14 luglio. Nel ricostruirla, Natoli descrive Borsellino vicino a una porta aperta, intento a fumare ed entrare e uscire. Eppure, rileggendo le audizioni al Csm a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio, le versioni sono diverse.
Domenico Gozzo afferma: «Borsellino era seduto due sedie dopo di me». Vincenza Sabatino dichiara: «Ero accanto a Borsellino per tutta l’assemblea». Dettagli che potrebbero sembrare marginali, ma che dimostrano l’inattendibilità della memoria. E forse anche il limite di affidarsi a “consigli” interni.
Non sono mancati scivoloni pesanti. Natoli, nelle conversazioni intercettate, ha usato espressioni offensive verso la famiglia Borsellino. Parole sgradevoli, pronunciate in privato con la moglie, ma rivelatrici di un atteggiamento inquietante. Come si può dire che Borsellino derideva sua moglie Agnese davanti ai colleghi? O insinuare che i figli avessero “pochi neuroni”? Certo, erano conversazioni private, ma il linguaggio che si usa, anche nell’intimità, rivela molto. E quando chi parla è chiamato a ricostruire pagine tragiche della storia italiana, ogni parola pesa.
Dal Messaggero si apprende che lo stesso Natoli, parlando di Agnese, le contestava di essersi ricordata dopo 15 anni della telefonata del procuratore Giammanco, la mattina del 19 luglio. Eppure, Agnese lo aveva detto fin da subito: basta rileggere la sua deposizione al processo Borsellino del 1995. Forse non è Lucia Borsellino ad avere problemi con i neuroni. A trent’anni di distanza si continua a giocare una strana partita.
Le indagini di Caltanissetta, per ora, sembrano concentrarsi soprattutto su Pignatone, con il rischio che diventi l’unico capro espiatorio. Il dossier “mafia-appalti” resta sullo sfondo. E intanto, sul piano politico, i protagonisti del biennio ’91-’92 si muovono ancora dentro giochi di palazzo che nulla hanno a che vedere con la verità sulle stragi di mafia.