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IL RETROSCENA
Il guaio di Matteo Renzi, nell’affaraccio del Senato, dove una ventina di esponenti delle varie opposizioni hanno aiutato Ignazio La Russa nell’elezione a presidente osteggiata da forzisti, è forse quello di non potersi aggiudicare tutto il merito dell’operazione. I parlamentari di cui egli dispone con Carlo Calenda a Palazzo Madama sono soltanto nove. Se ne avesse avuti abbastanza se ne sarebbe forse vantato.
A I SENATORI DEL TERZO POLO SONO 9 E L’EX ROTTAMATORE, DA SOLO, NON CE L’AVREBBE FATTA
Il guaio di Matteo Renzi, nell’affaraccio del Senato, dove una ventina di esponenti delle varie opposizioni hanno aiutato Ignazio La Russa nell’elezione a presidente osteggiata da forzisti, è forse quello di non potersi aggiudicare tutto il merito dell’operazione. I parlamentari di cui egli dispone con Carlo Calenda a Palazzo Madama sono soltanto nove. Se ne avesse avuti abbastanza per intestarsi da solo il colpaccio se ne sarebbe forse vantato, adducendo magari come motivo - che non sarebbe poi stato peregrino - la disponibilità annunciata già in campagna elettorale, pur nell’ambito di un’opposizione al centrodestra, a contribuire alla “riscrittura delle regole”, come lui la chiama. E che forse è stato anche l’oggetto di un colloquio avuto proprio con La Russa nei giorni scorsi. Nella impossibilità aritmetica di attribuirsi tutta la paternità dell’operazione, Renzi si è toscanamente divertito, dietro la facciata della solita, spavalda smentita d’ufficio, gonfiando il petto e strabuzzando gli occhi, a fare sospettare di complicità con lui la maggior parte possibile di persone o forze politiche.
Così il ministro ancora per qualche giorno Dario Franceschini, decisosi ad approdare al Senato dopo avere a lungo inseguito nella sua esperienza politica la presidenza della Camera, si è visto assegnare dal suo ex collega di partito, peraltro, la “intelligenza” adatta a movimentare l’avvio della diciannovesima legislatura nell’aula di Palazzo Madama. D’altronde, nel Pd la situazione è talmente fluida, a dir poco, che tutto è possibile immaginare e attribuire.
Anche la parte dell’opposizione dalla quale si è levata per prima, alta e forte, cioè quella pentastellata, la protesta contro il soccorso fornito al nuovo presidente del Senato, non può considerarsi per ciò stesso esente da sospetti. La brava Maria Teresa Meli sul
Corriere della Sera ha riferito, per esempio, di «un gruppo di senatori grillini» sorpresi in «un brindisi a base di spriz» dopo l’elezione di La Russa a dispetto di un Berlusconi fuori dalla grazia di Dio, ma curiosamente accorso a votare chissà come all’ultimo momento, dopo avere fatto astenere i suoi. Uno spettacolo francamente surreale di fronte al quale forse l’unica cosa seria da fare è disconnettersi.
D’altronde, il povero Pier Luigi Bersani, a distanza di nove anni dall’accaduto, quando le Camere non erano state ancora ridotte ai seicento parlamentari elettivi di oggi, non conosce l’identità di quei cento e più compagni o amici di partito che impedirono l’elezione al Quirinale prima di Franco Marini e poi di Romano Prodi. Lui, già ammaccato come presidente del Consiglio incaricato sulla strada di un governo “di minoranza e di combattimento” basato sulla benevolenza di Beppe Grillo, dovette dimettersi da segretario. E già allora, pensate un pò, qualcuno avvertì lo zampino di Matteo Renzi, che pure non era parlamentare. Si allenava come esterno, da sindaco di Firenze, al ruolo di rottamatore.