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Il diritto di informazione dev’essere collocato senza traumi e forzature nel processo penale. Di questo è fermamente convinto Nicola Triggiani, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bari “Aldo Moro” e curatore del libro “Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al processo mediatico” (Cacucci Editore).
«Quella tra stampa e processo penale – dice al Dubbio il professor Triggiani – è una convivenza assolutamente necessaria, posto che magistratura e libertà di stampa sono due pilastri dello Stato di diritto, ma è al contempo una convivenza molto difficile, che determina uno scontro quotidiano. Il legislatore aveva dato una puntuale e articolata regolamentazione negli articoli 114, 115 e 329 del Codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre del 1989, in tema di segreto investigativo e di limiti alla pubblicazione degli atti a tutela dei vari interessi coinvolti. Tale regolamentazione è stata, però, immediatamente travolta da prassi devianti, fino ad arrivare a un vero e proprio dissesto della legalità, sul quale non hanno sostanzialmente inciso i successivi interventi del legislatore e della Corte costituzionale». La situazione descritta dall’accademico barese ha portato a «un profondo divario tra dato normativo e prassi», dato che, a fronte di un articolato complesso di regole, si registra spesso l’inosservanza dei divieti di pubblicazione di atti posti a tutela del segreto investigativo o della riservatezza».
I fatti che vengono descritti nelle pagine di cronaca nera di giornali e telegiornali molto spesso danno vita a veri e propri processi mediatici. L’individuazione istantanea – e a tutti costi – del colpevole provoca non pochi danni. «Da circa vent’anni – osserva Triggiani – diciamo, soprattutto, dal “caso Cogne” in poi, siamo passati da una doverosa “informazione sul processo” a qualcosa di molto diverso, ovvero al “processo celebrato sui mezzi di informazione”, il cosiddetto “processo mediatico”. Gli effetti distorsivi nella rappresentazione mediatica della giustizia penale derivano non solo dalla narrazione mediante la cronaca giudiziaria, che registra abusi, carenze ed eccessi, ma anche dal fenomeno dei “processi paralleli” in tv, in grado di condizionare pesantemente l’opinione pubblica e di incidere potenzialmente anche sullo stesso svolgimento e sugli esiti del processo.
Il decreto legislativo 188 del 2021 sul rafforzamento della presunzione di innocenza, approvato in attuazione della direttiva 2016/ 343/ UE, ha rappresentato senza dubbio un ampliamento delle garanzie per l’imputato, ma ha avuto deboli riflessi sull’informazione giudiziaria: nei fatti non è cambiato molto, se non indirettamente, poiché le disposizioni del decreto non sono rivolte ai giornalisti ma ai magistrati e in generale alle autorità pubbliche, ad esempio le forze di polizia, inibendo loro di presentare già come colpevole la persona sottoposta alle indagini o l’imputato e prevedendo, tra l’altro, una disciplina delle conferenze stampa. D’altronde, è forse illusorio ritenere che una innovazione normativa possa modificare in modo significativo l’assetto consolidato dei rapporti tra giustizia penale e informazione. Non si può dire che il nostro apparato normativo sia carente dal punto di vista delle tutele, tutt’altro, anche se già sono all’orizzonte nuove proposte di modifica. Certamente le nuove disposizioni hanno reso più difficile per i giornalisti acquisire le informazioni. Non so fino a che punto questo sia un bene».
Come si bilancia, dunque, il diritto all’informazione con la salvaguardia di chi è sottoposto ad indagini? Si tratta, secondo Triggiani, di un’operazione tutt’altro che semplice, dato che presenta un obiettivo al quale non si deve rinunciare. «Occorre – aggiunge il processualpenalista dell’Università di Bari – contemperare interessi ontologicamente confliggenti, parimenti tutelati dalla Costituzione, rispettivamente all’articolo 21, in merito alla libertà di manifestazione del pensiero, e dunque al diritto di informare e di essere informati, e all’articolo 27, comma 2, sulla presunzione di non colpevolezza. Senza dimenticare che anche altri diritti costituzionali vanno bilanciati con il diritto di cronaca: l’interesse alla regolare amministrazione della giustizia, che comporta la tutela del segreto investigativo, della genuinità probatoria e della corretta formazione del convincimento del giudice, e il diritto alla riservatezza sia dell’indagato- imputato che di tutte le altre persone coinvolte in un procedimento penale, come vittime o testimoni.
Emerge, poi, soprattutto la necessità di tutelare i terzi estranei, soggetti per l’appunto estranei alle indagini, ai quali non viene mosso alcun addebito, e che, laddove rivestano un ruolo pubblico o siano comunque persone note, per le più svariate ragioni vedono fortemente compromessa la loro reputazione, magari semplicemente a causa di una telefonata con l’indagato intercettata dalla polizia giudiziaria e poi divulgata». Ecco che emerge l’esigenza di un bilanciamento tra esigenze diverse.
«Occorre scongiurare – conclude il professor Triggiani – il rischio che un’eventuale riforma normativa, tesa a rimuovere le patologie oggi presenti in un settore così vitale e sensibile per la democrazia, possa rappresentare un rimedio peggiore del male. È invece necessario sforzarsi di raggiungere un punto di equilibrio tra libertà di stampa, regole processuali e diritti fondamentali della persona. Resta centrale il richiamo alla deontologia e al senso di responsabilità degli operatori della giustizia e dell’informazione. Soprattutto è auspicabile un’autentica rivoluzione culturale che coinvolga media, magistratura e società».