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GIOVANNI TOTI POLITICO
Che un presunto innocente riacquisti la libertà, dopo oltre tre mesi di custodia cautelare, è senz’altro una buona notizia.
L’incalzare dei processi mediatici hanno avuto, tra l’altro, l’effetto di obliterare la condizione che riveste qualsiasi cittadino sottoposto ad un processo penale ancora in corso: è un presunto innocente nonostante la grancassa agitata da forcaioli e giustizialisti.
Toti potrà tornare a muoversi liberamente, frequentare chi vuole, attendere alle sue occupazioni tranne, però, che ad una, la più importante: non potrà tornare a svolgere la funzione, a cui è stato eletto dai suoi concittadini, di Presidente della Regione. È proprio questa la pessima notizia.
Non nascondiamoci dietro il dito: ha dovuto barattare la sua libertà con le dimissioni da una carica che gli era stata attribuita dalla sovranità popolare.
La vicenda assume un sinistro valore emblematico: i cittadini, col loro voto, scelgono chi li rappresenta e li governa, il potere giudiziario decide sino a quando i prescelti possono continuare a farlo anche a prescindere dall’accertamento definitivo di una qualche loro grave responsabilità.
Una classe politica che abbia ben presente i meccanismi di una democrazia, i delicati equilibri di uno Stato di diritto, l’infido e scivoloso crinale che divide lo Stato liberale da uno di polizia, si sarebbe già da tempo attivata per porre rimedio.
La nostra invece si dimostra vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma e si è innamorata dei suoi sequestratori sino al punto che li ha riforniti di strumenti sempre più efficaci per privare se stessa di spazi vitali, di prerogative indefettibili a cominciare proprio dalla funzione di rappresentanza popolare. Così, ad esempio, il nostro legislatore ha emanato norme per cui basta una condanna in primo grado per uno dei tanti reati previsti (peraltro non sempre gravi) a determinare la automatica sospensione da una carica elettiva come quella di Sindaco o di Presidente di Regione. Per non dire di quelle strane regole sulla “incandidabilità” a causa della sola pendenza di un’indagine penale.
L’itinerario di fondo che si sta da troppi anni percorrendo assomiglia molto ad una abdicazione, anzi si ha l’impressione che la politica stia assistendo inerte al taglio di quel ramo su cui si regge: il principio di rappresentanza.
Ma torniamo al punto.
Toti è rimasto in vinculis perché, essendo in carica, potrebbe reiterare i reati di cui è accusato.
Appunto, solo accusato, non già condannato.
Non giriamoci intorno: la condizione di Toti, e di tanti altri che l’hanno subita e la subiranno, può dirsi rispettosa del principio costituzionale della presunzione di innocenza?
Il dibattito che è attualmente in corso sull’articolo 27 della Costituzione ha il merito di aver messo a fuoco l’ingiusta e feroce colpevolizzazione “fuori” dal processo, sulle piazze mediatiche in cui si trasforma l’indagato in ripugnante colpevole.
Però non va dimenticato che la presunzione di innocenza deve trovare attuazione innanzitutto “dentro” il processo penale, nelle sue regole e principi e nell’effettiva loro applicazione.
Il suo terreno d’elezione è quello delle regole probatorie: non ci si può accontentare di una presunzione di innocenza che tuteli chi non sia stato definitivamente condannato se, però, le regole processuali consentono di arrivare alla condanna di un soggetto la cui colpevolezza non sia dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Se l’innocenza è presunta, significa che per pronunciarsi una condanna l’accusa deve offrire una prova di colpevolezza talmente forte e persuasiva da superare, senza alcun residuo dubbio, quella presunzione.
Siamo certi che il nostro sistema “vivente” di regole probatorie sia sempre idoneo a garantire il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio?
Non meno delicate le questioni che sorgono prima della (solo eventuale) condanna, nel corso del processo e nelle sue varie fasi in cui intervengono provvedimenti non definitivi tra cui, principalmente, quelli cautelari di detenzione in carcere o nel domicilio per pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o, venendo al punto più critico, per pericolo di reiterazione del reato.
La tranquillità sociale ed i beni giuridici più importanti vanno protetti: nel corso dei tempi del processo non si può consentire che il gravemente indiziato di mafia continui ad operare o che reiteri le sue seriali condotte il rapinatore o lo stupratore o il violento in ambito familiare.
Come non evocare lo stesso principio per l’amministratore pubblico gravemente indiziato di corruzione o di concussione? Perché dubitare che se costui rimane in carica può reiterare quegli illeciti e che quindi bisogna tenerlo in detenzione sino a quando non si sia dimesso?
Il dubbio è ben giustificato per almeno due ragioni.
La prima: se si costringe l’amministratore pubblico alle dimissioni ancor prima della sua condanna di fatto gli si applica una sanzione penale in via definitiva pur in mancanza di un qualche accertamento di responsabilità.
La carica elettiva non verrà più riacquistata nemmeno se l’interessato verrà assolto, la volontà popolare che lo aveva voluto al governo di una certa comunità rimarrà vanificata per sempre.
Si ottiene quindi lo stesso risultato dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici senza però che questa sia contenuta, così come vuole il codice, in una condanna.
Già questo solo dovrebbe far riflettere.
Seconda ed ancora più insidiosa e complessa ragione che giustifica le più gravi perplessità su ogni giudizio in tema di pericolo di reiterazione dei reati contro la pubblica amministrazione.
Vi sono condotte (ed eventi che ne sono conseguenza) che sono senz’altro riconducibili a fattispecie di reato, che chiunque, senza bisogno di interpretazioni, percepisce come tali.
Se viene trovato un cadavere con un proiettile in testa, ed il morto non impugna alcuna arma, è chiaro che qualcuno ha ucciso. Si tratta di scoprire chi ha sparato, ma nessuno può dubitare che si tratti di un reato di omicidio. Così accade, ad esempio, anche nel caso di una rapina o di un furto o di lesioni personali o di una violenza sessuale la cui vittima ne porti i segni: si tratta di situazioni in cui la lettura, l’attribuzione al fatto di una certa qualificazione giuridica è immediata, naturale conseguenza dell’evento naturalistico di quei reati.
Se si individua il soggetto gravemente indiziato, anche il giudizio sul pericolo di reiterazione è qui più semplice perché spesso si avvale dell’esistenza di precedenti specifici ovvero delle modalità di commissione e del particolare dolo che quasi sempre è di immediata percezione.
Ma che dire quando, ad esempio, si tratta di stabilire se un pubblico ufficiale abbia adottato un atto (legittimo) del suo ufficio perché l’interessato possa essere stato, o possa diventare, un suo sponsor politico, possa condividere e sostenere economicamente la sua parte politica?
Il legame “sinallagmatico” tra l’atto dell’ufficio ed il presunto ausilio-vantaggio è in questo caso affidato ad un giudizio molto sottile, e discrezionale, da cui dipende la stessa esistenza -o meno- del reato.
In molti dei reati di corruzione o di induzione indebita la “sussistenza” del reato è tutt’altro che scontata, tutt’altro che di “naturale” percezione da parte di chiunque.
Qui la sussistenza del reato discende non già dalla “naturalità” del suo evento (la morte, le lesioni, la sottrazione del bene), bensì da una certa interpretazione, complessa e difficile, sia del fatto materiale che della norma. Ancor più irta di ostacoli, poi, la ricostruzione del dolo che è ben lontano dalla precisa determinazione di volontà di chi sferra un pugno o spara un colpo di pistola.
Andiamo al dunque: in molti dei reati “comuni” per cui si applica la custodia cautelare in virtù del rischio di reiterazione ci si trova di fronte ad un fatto che con certezza “sussiste” come reato.
In buona parte dei reati contro la pubblica amministrazione “forse” ci si trova in presenza di un reato e “forse”, invece, no.
A guardare l’alta percentuale di sentenze di assoluzione “perché il fatto non sussiste” si dovrebbe addirittura concludere che in questi casi la custodia cautelare viene con alta probabilità applicata a fronte di “non” reati.
Ecco perchè servirebbe una seria, composta riflessione anche sulla regola processuale (cautelare) del pericolo di reiterazione: un conto è evocarla in relazione ad un fatto che certamente è da considerare reato per il tipo di evento naturalistico che lo connota, un conto è applicarla per fatti e condotte che sono considerati reati solo in virtù di un articolato, spesso tortuoso se non cervellotico, percorso interpretativo.