Il ministro Nordio, durante la presentazione del programma “Scuola esercizio di libertà” presso la casa circondariale di Civitavecchia, non ha potuto non soffermarsi sul recente caso di cronaca che ha visto un noto youtuber patteggiare una condanna a 4 anni e 4 mesi di reclusione per i reati di omicidio stradale aggravato e di lesioni, con concessione delle attenuanti generiche.

A fronte di contestazioni così gravi, delle modalità con cui è avvenuto il tragico incidente e delle vittime coinvolte, l’opinione pubblica si è duramente interrogata circa il funzionamento - e, ancora prima, dell’esistenza stessa - della giustizia.

Prima del 2016, le pene previste per l’omicidio colposo in violazione alle norme del codice della strada potevano ritenersi irrisorie se poste a confronto con la gravità dei fatti.

È stato, quindi, costruito dal Legislatore dell’epoca un reato colposo sui generis, comminando una pena che, nel nostro ordinamento, è senza precedenti tanto da avvicinarsi a quella dell’omicidio doloso.

La ratio dell’introduzione dell’omicidio colposo stradale è individuabile proprio nell’esigenza di una più intensa e penetrante tutela in un settore della vita di relazione, particolarmente importante dal punto di vista socio – economico, caratterizzato da un alto livello di rischio per l’incolumità individuale.

Queste volontà del Legislatore devono però certamente essere messe in relazioni a tutti quelli che sono, al contempo, gli strumenti processuali di cui al Codice di rito, che consentono, in contropartita all’erosione di garanzie processuali, quali il dibattimento e la formazione della prova avanti al giudice terzo che arriva in aula mind free, di ottenere un significativo sconto di pena.

Proprio a riguardo del caso in questione, l’interessato non subirà verosimilmente un trattamento intra murario, perché ha già scontato in misura cautelare una parte della pena ( cd. pre- sofferto, che nel caso concreto è di circa 8 mesi) e quel che gli rimane risulta inferiore ai 4 anni, termine che la legge penale indica come tetto massimo per la concessione di misure alternative alla detenzione, tra cui la detenzione domiciliare ovvero l’affidamento

in prova ai servizi sociali. La riflessione che occorre fare riguarda il bilanciamento degli interessi processuali, tra tempistiche di disbrigo delle udienze, garanzie nei confronti di chi è coinvolto e infine osservanza dei fatti dai quali origina il procedimento. L’entrata in vigore della riforma dell’ex ministra Cartabia, rende necessaria una rilettura degli articoli sostanziali con i nuovi strumenti di deflazione dei processi: lo sconforto percepito dal sentimento sociale potrebbe esser calmierato dal rinvigorimento di poteri del Giudice dell’udienza preliminare che, anche a mente delle riforme pregresse, resta relegato nella sua funzione di mero controllore di legalità e tenutario dell’agenda del Tribunale. Una soluzione, per evitare che i riti alternativi vengano preferiti esclusivamente a favore di una giustizia sì più celere, ma che al contempo fa storcere il naso a fronte delle esigue condanne irrogate, come nel caso in questione, sarebbe dunque quella di irrobustire l’efficienza dell’udienza preliminare; a lato provvedere ad una iniezione di nuovo organico. È condivisibile, soprattutto dagli addetti ai lavori, che vi sia un mal funzionamento radicato nella disciplina. Sarebbe utile che l’udienza preliminare non si limitasse a essere una mera calendarizzazione dell’agenda del giudice del dibattimento, ma piuttosto che venisse posto in essere un filtro più rigoroso ed efficace, vicino a quello anti- riforma.

L’esercizio dell’azione penale, di per sé, non equivale a un’iniziativa sempre ben sorretta da prove granitiche; eppure, tale potere- dovere – bisognevole di riforma anch’esso – genera conseguenze importanti: emerge oggi con chiarezza, osservando il numero di sentenze di proscioglimento, che il pubblico ministero riesce a innestare il giudizio anche se gli elementi di cui dispone non sono del tutto convincenti e anche il nuovo filtro dell’udienza predibattimentale si trasforma in un mero orpello. E allora, seguita la regola sopra descritta, si reputa necessario far leva anche sul diritto sostanziale per giungere a quel compromesso che Calamandrei espose ne “Il discorso agli studenti milanesi”, 1955, per il quale non sono gli organi costituzionali a dare struttura alla Costituzione, ma “ le mete che si debbono gradualmente raggiungere e per il raggiungimento delle quali vale anche oggi, e più varrà in avvenire, l’impegno delle nuove generazioni”: che le riforme in discussione in seno al Legislatore riportino quella necessaria fiducia nella Giustizia a tutela delle parti processuali e del popolo, nel cui nome la medesima è amministrata