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Il ricorso contro l’assoluzione di Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, «è inammissibile perché versato in fatto e richiede una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità, a fronte di una sentenza che, in ordine alle assoluzioni di Raso e Sorbara, ha sviluppato una motivazione congrua ed esente da vizi di travisamento e manifesta illogicità». Con queste parole la Corte di Cassazione ha scritto la parola fine all’Odissea giudiziaria dell’ex politico, assolto dopo 909 giorni di custodia cautelare. Una decisione che, di fatto, rimanda alle ragioni già chiarite dalla Corte d’Appello di Torino, che in 640 pagine aveva specificato, oltre ogni ragionevole dubbio, che non esiste alcuna prova che Sorbara sia un concorrente esterno della locale di ‘ndrangheta della Val d’Aosta.
La procura generale della Corte d’Appello aveva tentato di ribaltare il verdetto, affidando ai giudici di legittimità l’ultima carta per rivalutare la posizione di Sorbara, che ha trascorso 214 giorni in carcere prima di vedersi concedere i domiciliari, giorni durante i quali ha anche pensato al suicidio. I magistrati torinesi, infatti, contestavano la rilevanza di due circostanze: il rapporto d’amicizia tra Sorbara e Antonio Raso e «l'esclusione della consapevolezza, in capo al Sorbara, dell’appartenenza di Raso alla ‘ndrangheta». E bacchettava i giudici laddove avevano evidenziato la necessità di dimostrare che le condotte di Sorbara, per essere considerate penalmente rilevanti, siano state utili all'associazione - cosa che non è emersa nel corso del processo -, optando quindi per la loro irrilevanza e mettendo in rilievo come le condotte di Raso non siano state affatto utili per Sorbara. Un’inversione dei piani, secondo i magistrati, in quanto «la Corte territoriale ha trascurato che non è Raso a servizio di Sorbara, ma è quest’ultimo ad essere, una volta eletto, a servizio di Raso, quale appartenente alla associazione di ‘ndrangheta».
La procura generale della Corte di Cassazione non si è però associata a tale ragionamento, chiedendo ai giudici di non ammettere il ricorso dei colleghi di Torino; richiesta poi accolta con la conferma dell’assoluzione di Sorbara - difeso da Sandro Sorbara e Nicola Pisani - perché il fatto non sussiste. Secondo i giudici d’appello, l’assoluzione sarebbe potuta arrivare già in primo grado, in quanto «analizzando complessivamente le risultanze probatorie» non è stata raggiunta «la prova» circa un suo possibile coinvolgimento in attività mafiose. Il sospetto si basava in gran parte sulla sua amicizia con Raso, titolare della pizzeria “La Rotonda” di Aosta, considerato partecipe del gruppo malavitoso - secondo l’ipotesi iniziale ne sarebbe stato un promotore -, e per questo condannato a 10 anni di carcere, condanna che ora verrà rivalutata da una nuova sezione della Corte d’Appello. Con lui, Sorbara avrebbe intrattenuto soltanto un sincero rapporto di amicizia, basato anche sulle comuni origini calabresi. Rapporto che non basta, da solo, a creare quei «presupposti logici» - assenti secondo i giudici - che testimonierebbero il «“previo” arruolamento di Marco Sorbara tra i politici stabilmente “satelliti” del sodalizio attraverso un decisivo appoggio elettorale». Tant’è che «un sereno ed attento esame del materiale captativo non consente di ritenere provato che Sorbara stesso ricevette l’investitura preelettorale» da parte del gruppo mafioso.
Un eventuale sostegno smentito anche dal tenore complessivo delle intercettazioni relative alla campagna elettorale per le amministrative del 2015, dalle quali emerge come i politici di riferimento fossero altri, peraltro mai indagati. Per quanto riguarda la campagna elettorale del 2018, inoltre, le intercettazioni dimostrerebbero perfino «elementi favorevoli all’imputato». La vera vocazione di Sorbara, pur essendo un libero professionista, era dunque l’attività politica, praticata ben prima della formazione della presunta associazione a delinquere scovata dall’indagine. E nel suo comportamento nulla farebbe pensare ad un «contributo che si risolva in una “condizione necessaria per la conservazione o per il rafforzamento della capacità operativa” dell’associazione». La sua attività amministrativa, anzi, è stata passata al setaccio dagli inquirenti «senza che emergessero irregolarità di sorta e men che meno foriere di poter sortire sviluppi in sede penale o di giustizia contabile».
Per il resto, la Cassazione, annullando con rinvio le condanne inflitte in secondo grado, ha evidenziato come «affinché quella “fama criminale” possa essere fatta derivare dalla “spendita del nome” della 'ndrangheta calabrese, occorre che si provi che il tessuto sociale di riferimento (lontano dalla Calabria), anche in assenza di specifici “atti intimidatori”, sia automaticamente in grado di recepire i messaggio che quel collegamento evoca». Da qui la necessità di celebrare un nuovo processo d’appello per «colmare le suindicate lacune motivazionali, tenendo conto, in via prioritaria, che in un caso come quello in esame, nel quale l'atteggiamento intimidatorio non ha mai assunto connotazioni esplicite, tantomeno spettacolari, non si è mai estrinsecato nella commissione di reati tipicamente e tradizionalmente ricollegati al fenomeno mafioso (omicidio, estorsioni, minacce, danneggiamenti…), e neppure ha portato alla condanna degli imputati per “reati-scopo” di qualsivoglia natura, è evidente che le azioni compiute dai componenti l'associazione» possono «essere considerate rilevanti sotto il profilo della loro capacità di integrare l'elemento costitutivo del “metodo mafioso”, in quanto possano essere ritenute di per sé evocative della fama criminale dell'associazione stessa».