La leggenda dei taxi del mare non sussiste. Dopo sette anni, si chiude la vicenda della nave Iuventa, rimasta ad arrugginire sotto sequestro, al costo di 3 milioni per lo Stato italiano, in attesa che la giustizia dimostrasse la tesi servita ai partiti di centrodestra per coniare slogan anti immigrazione da sfruttare alle urne. Una vera e propria invenzione, ad opera di ex agenti infiltrati sulla nave in cerca di un posto al sole nella Lega e in Fratelli d’Italia, che hanno poi fatto un passo indietro, ammettendo che l’unico interesse delle ong era quello di salvare vite.

L’ipotesi iniziale della procura è che tra il 2016 e il 2017 l’equipaggio della Iuventa, «anziché effettuare veri e propri soccorsi di persone in pericolo», agisse «di concerto con le reti dei trafficanti libici, organizzando “consegne concordate” in acque internazionali di migranti che successivamente venivano trasportati sul territorio italiano». Operazioni che garantivano loro «maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione – anche economica – dei propri sostenitori». Il gup del Tribunale di Trapani, però, ha deciso che non ci sarà nessun processo alla solidarietà, decretando il non luogo a procedere a seguito della richiesta della procura e delle difese dell’equipaggio della Iuventa (Nicola Canestrini, Alessandro Gamberini e Francesca Cancellaro), degli operatori di Msf (Alessia Angelini, David Brunelli, Salvatore Alagna, Stefano Greco), di Save the children (Jean Paul Castagno, Andrea stigliano e Umberto Coppola) e della società Vroom (Andrea Copello e Cesare Fumagalli). Il fatto non sussiste, ovvero non esiste nessun accordo tra trafficanti e volontari, che hanno un unico scopo: salvare vite. E nel periodo in cui la Iuventa è rimasta in porto a marcire, anziché per mare, sono 11mila quelle di cui si è persa ogni traccia nel Mediterraneo, diventato un vero e proprio cimitero.

Il caso Iuventa rappresenta il procedimento più lungo, costoso ed esteso contro le ong. Sono stati necessari due anni di udienza preliminare, con oltre 40 udienze, per arrivare alla conclusione che i legali sostengono da anni: non c’era traccia di reato. «Pur accogliendo con favore il risultato, la troupe di Iuventa esprime profonda preoccupazione per il danno irreparabile inflitto dall’indagine e dal processo», si legge in una nota della ong. Per Sascha Girke, capo missione Jugend Rettet sulla Iuventa, «come risultato di un'indagine viziata, guidata da motivazioni politiche, migliaia di persone sono morte nel Mediterraneo o sono state riportate con la forza nella Libia devastata dalla guerra». Per Christos Christou, presidente internazionale di Msf, «crolla il castello di accuse infondate che per oltre sette anni hanno deliberatamente infangato il lavoro e la credibilità delle navi umanitarie per allontanarle dal Mediterraneo e fermare la loro azione di soccorso e denuncia. Ma gli attacchi alla solidarietà continuano attraverso uno stillicidio di altre azioni: decreti restrittivi, detenzione delle navi civili, supporto alla guardia costiera libica che ostacola pericolosamente i soccorsi e alimenta sofferenze e violazioni, mentre le morti in mare continuano ad aumentare».

Quello alla Iuventa, di fatto, era un processo politico. In primo luogo perché, nel corso dell'udienza preliminare a Trapani, a dirlo sono state le stesse forze dell’ordine che hanno letteralmente blindato il Tribunale. In secondo luogo, lo si evince dal fatto che a chiedere di costituirsi parte civile non è stato, come da prassi, solo il ministero dell’Interno, ma anche la presidenza del Consiglio dei ministri. Questo caso è stato il punto di inizio di una campagna contro il salvataggio civile in mare, che ha portato all’emanazione di norme volte ad ostacolare le ong e a misure repressive che «continuano ancora oggi, concentrandosi ora sull’ostruzione amministrativa come nel caso del decreto Piantedosi - continua la nota -, confermando la persistenza dello Stato italiano nell’embargo sul salvataggio marittimo. Inoltre, migliaia di persone in movimento continuano a essere regolarmente arrestate con le stesse accuse – favoreggiamento dell’immigrazione non autorizzata – semplicemente perché hanno guidato la barca o guidato un’auto.

A differenza dell’equipaggio della Iuventa, queste persone spesso non hanno lo stesso livello di sostegno e attenzione e sono spesso soggette a lunghe pene detentive. Per evitare il ripetersi del caso Iuventa e salvaguardare i diritti delle persone in movimento, Iuventa-crew chiede quindi l’abolizione della criminalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione. Denunciano il “Pacchetto facilitatori” europeo e l’articolo 12 della legge italiana sull’immigrazione, che consentono e incoraggiano la criminalizzazione della solidarietà tra e verso le persone in movimento e mettono in pericolo i diritti fondamentali. Un caso sulla validità e interpretazione del pacchetto Facilitatori è attualmente pendente dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Ue».

L’equipaggio era pronto a rischiare di essere arrestato, ha spiegato in conferenza stampa l’avvocato Canestrini, «ma pensavano che sarebbero state le autorità libiche a farlo. E non avrebbero mai pensato che l’Italia, che ha una lunga tradizione nella difesa dei diritti umani, avrebbe fatto loro questo. La decisione di oggi (ieri, ndr)- ha evidenziato - riconosce che il salvataggio in mare non è un reato, ma è un dovere e un diritto. Questo processo è stato usato nella narrazione politica, e non solo in quella, per dimostrare che c’erano prove della collaborazione tra ong e trafficanti di esseri umani. Ci auguriamo che questa decisione sia un caso emblematico per difendere l’attività di salvataggio in mare, anche in futuro, per difendere il diritto alla solidarietà contro le politiche italiane e dell’Ue in materia di migrazione». Per l’avvocata Cancellaro, la sentenza rappresenta «un punto di partenza importante nel processo di depenalizzazione della solidarietà».