Quando si parla di crisi dell’avvocatura, si pensa generalmente all’aspetto reddituale, ma non è questo il profilo di cui intendo parlare. È normale che determinate professioni oggi rendano di meno, o di più, che in passato. Viviamo peraltro in un tempo in cui il mondo corre sempre più velocemente e saranno molte le occupazioni che nel giro di qualche anno addirittura non esisteranno più. Si tratta di processi per molti versi irreversibili.

Quello che però mi è intollerabile è la crisi della funzione dell’avvocato, costituzionalmente intesa, ed il suo ruolo sempre più residuale nell’ambito del processo. Io mi occupo di diritto civile e devo registrare che questa tendenza, di progressivo annichilimento del nostro ruolo, assume sembianze sempre più decise e chiaramente percepibili, quantomeno nei suoi effetti più immediati. Ma procediamo con ordine.

In occasione dell’emergenza dovuta alla diffusione del Covid 19, al deposito telematico degli atti si è aggiunta la trattazione telematica dell’udienza, ossia lo svolgimento della stessa, appunto, mediante l’inoltro telematico di note scritte. Tale sistema, istituzionalizzato per effetto della riforma Cartabia, ha sensibilmente ridotto, fino quasi ad eliminare del tutto, qualsiasi spazio di confronto diretto sia tra le parti che tra queste e il giudice.

Non solo. Il principio del contraddittorio, a cui viene pacificamente accordato rilievo costituzionale, è stato ritenuto recessivo proprio in ordine al momento più significativo del processo, ossia l’udienza. La trattazione cartolare, infatti, fa sì che normalmente ciascuna parte formuli le proprie istanze e deduzioni al buio, ossia non conoscendo il contenuto delle note avversarie, pertanto non potendo replicarvi, venendo a delinearsi un sistema che potremmo definire di contraddittorio semipieno.

Ciò rileva anche nel senso di ridurre le possibilità di definizione bonaria e depotenziare lo sforzo conciliativo del giudice, che ovviamente non può prescindere da un contatto diretto con le parti. Difficile che questa possano essere aiutate a mettersi d’accordo dal giudice quando oramai è ben possibile che la causa giunga al termine senza che il giudice le abbia mai incontrate. Per quel che interessa in questa sede, inoltre, è indubbio che la riduzione di spazi di confronto dialettico comporti uno svilimento del ruolo dell'avvocato.

È di questi giorni l’introduzione, in esecuzione della riforma Cartabia, dei limiti dimensionali degli atti giudiziari. Nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, dato che ci invitano continuamente a scrivere il meno possibile, a limitare le nostre note di trattazione alle sole istanze e conclusioni. È paradossale, peraltro, che molto spesso tale invito ci viene rivolto attraverso provvedimenti di cinque o sei pagine. Cinque o sei pagine per dirci che dobbiamo scrivere tutto in una. Ora tale invito ci perviene direttamente dal legislatore.

Di più: l’art. 46 delle disposizioni attuative al cpc prevede inoltre che il ministro della Giustizia definisca con decreto “gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo”. Il che lascia intravedere un futuro non troppo lontano in cui compileremo dei moduli forniti dal ministero, stando attenti a fare entrare tutte le parole negli appositi spazi a tal fine concessi, il tutto nell’ambito di un processo attento sempre di più alla forma e sempre di meno alla sostanza.

Anche in relazione a tale ultimo profilo, non dico nulla di nuovo. È sotto gli occhi di tutti l’aumento di cause di inammissibilità o improcedibilità, molto spesso anche di creazione giurisprudenziale al fine di utilizzarle come scorciatoie per evitare la fatica di entrare nel merito delle questioni. Il giudice è sempre di meno giudice del fatto e sempre di più controllore del procedimento. Non è un caso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la nota sentenza del 28.10.2021, abbia bacchettato l’eccessivo formalismo della Cassazione, i cui criteri attribuiscono un peso sproporzionato alla forma a scapito della sostanza. Appare, del resto, di immediata percezione il paradosso di un sistema in cui il ricorso per Cassazione deve essere autosufficiente (ossia contenere la chiara indicazione ed esaustiva esplicazione degli elementi necessari a deciderlo) ma, allo stesso tempo, rischi di essere dichiarato inammissibile perché troppo lungo e prolisso. Ma non c’è da stupirsi, se basta una mancata attestazione di conformità (quando tale conformità nessuno abbia disconosciuto) per vedere apposto al ricorso il timbro della improcedibilità.

Le questioni di diritto sono relegate in secondo piano. Quello che assume rilievo decisivo è come e dove notificare a mezzo pec, come attestare quel che si è notificato, come depositare quello che si è fatto ed attestato. In un sistema in cui sono oramai queste le cose da cui usualmente dipenda l’esito di un giudizio, non c'è da sorprendersi se lo spazio per il confronto dialettico, per il contraddittorio e, dunque, per il nostro ruolo di avvocati vada riducendosi. La prospettiva è quella di renderci degli impiegatucci del sistema giudiziario, forse un sostanziale prolungamento del c.d. ufficio del processo, in ossequio alle esigenze della produttività.

Il problema non è che in questo modo il lavoro degli avvocati divenga meno affascinante. Di questo, dobbiamo trovare la forza di farcene una ragione. Il problema è che la principale funzione degli avvocati è la tutela dei diritti individuali. E perciò che lo svilimento del ruolo degli avvocati non può che indebolire questa tutela; divenendo allora un problema che riguarda tutti, non solo gli avvocati.

La storia del liberalismo giuridico, ossia dall’idea per cui esistono diritti che appartengono all’uomo per natura e che pertanto nessuna autorità (quand’anche espressione delle più ampie maggioranze) può mettere in discussione, è anche storia di un’avvocatura forte e consapevole del proprio ruolo. Francois Furet ha definito la Rivoluzione francese come “rivoluzione degli avvocati”, che condurrà alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1789, quei diritti e quelle libertà che precedono il potere politico e che nessun potere politico, dunque, può legittimamente violare. Ancora oggi, non a caso, l’art. 1 del codice deontologico forense prevede che “l’avvocato, nell’esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a tutela e nell’interesse della parte assistita”.

La nostra è una professione liberale che risponde ad una importante funzione sociale, il cui svolgimento non sempre si sposa appieno con le esigenze di produttività del sistema giudiziario, in ossequio alle quali si è oramai disponibili a mettere in discussione la tenuta dei principi fondamentali, primo fra tutti il diritto di difesa. In nome del quale dovremmo trovare il modo di ostacolare questo tentativo di ridurre il processo a mera sequenza di passaggi procedimentali, magari con l’obiettivo finale di sostituirci con un algoritmo.

La produttività del sistema ne trarrà probabilmente giovamento. Avremo giudizi rapidi, anche se dagli esiti del tutto sconnessi dalla responsabilità umana. Giudizi che di fatto non saranno più tali e dove si potrà finalmente fare a meno di noi avvocati, che potremo resistere a questa deriva solo riscoprendo l’essenza della nostra irriducibile condizione, che in fondo è semplicemente quella di uomini che difendono altri uomini.