PHOTO
Dovrebbe provocare gioia la notizia che un innocente, riconosciuto tale dopo una ingiusta condanna, torni in libertà. Ma se gioia si prova, questo sentimento viene immediatamente sopraffatto da altri pensieri e da differenti emozioni, specialmente se quell’uomo, scarcerato mentre è ancora in corso un drammatico processo di revisione davanti alla Corte di Appello di Roma, ha già scontato trentadue anni di reclusione. Una vita intera trascorsa da recluso quella di Beniamino Zancheddu condannato per omicidio.
Inevitabile provare infatti anche indignazione nei confronti di una giustizia penale incapace di evitare simili errori (e simili orrori). Pur consapevole della terribilità dello strumento penale e dei danni atroci e irreparabili che può determinare nelle vite degli imputati, il nostro sistema processuale continua a perpetrare una disinvolta assuefazione nei confronti dei rischi dell’errore giudiziario. Anziché salvaguardare con convinta determinazione i pochi e imperfetti strumenti di garanzia e di salvaguardia costituiti dalle impugnazioni, il legislatore si affanna a creare impedimenti e a imporre assurdi formalismi al fine di scoraggiare e di ridurre il numero degli appelli e dei ricorsi, che sono i nostri unici rimedi all’errore e all’ingiustizia.
Troppo spesso facciamo del processo penale uno strumento di vendetta sociale. Dimenticando l’errabilità di quello stesso strumento e la presunzione di innocenza, utilizziamo testimonianze incerte, prove tecniche inquinate o errate, procedimenti indiziari di discutibile logicità. Abbassiamo progressivamente e irragionevolmente gli standard probatori e il numero delle garanzie proprio in relazione all’accertamento dei reati più gravi, così accettando che l’errore possa distruggere la vita di un uomo, sottraendogli ciò che nessuno potrà più restituirgli.
Evidente che nella vicenda di Beniamino Zancheddu abbia infatti pesato la gravità del reato, un triplice omicidio. Con la conseguente necessità stringente di fare giustizia, la necessità di dare una celere risposta alle comunità e al territorio, le convinzioni degli investigatori che si trasformano in pressione su di un testimone, la pressione che si risolve in un incerto riconoscimento, oggi smentito da quello stesso testimone sopravvissuto.
Se simili errori possono anche essere attribuiti al dolo, alla colpa o solo alla incapacità degli uomini, non possiamo non riconoscere che spesso pessime leggi e pessimi ordinamenti giudiziari, si incontrano con quelle incapacità. Basti pensare al numero di ingiuste detenzioni che lo Stato italiano paga per l’incredibilmente alto numero di vittime di cautele ingiustamente inflitte, per renderci conto che abbiamo sostanzialmente deciso di convivere con l’errore, di disinteressarci delle vittime potenziali del processo, del tutto ignorando che ci stiamo consegnando a un sistema nel quale a ogni promessa di sicurezza corrisponde la perdita di una garanzia, a ogni promessa di fare giustizia, corrisponde il rischio di sottrarre ingiustamente la libertà ad un nostro simile.
Insomma dobbiamo essere tutti consapevoli che il processo che ci aspetta in futuro, se non invertiamo questa rotta, non mira affatto alla riduzione dell’errore, all’aumento delle garanzie e degli strumenti di controllo sulle decisioni ingiuste, ma alla sola più rapida soluzione dell’affare e allo smaltimento della pratica come richiesto dal Pnrr.