Hadith, Mahsha morte per la libertà scuotono il regime degli ayatollah

La polizia spara contro cortei e manifestazioni ma la rivolta delle donne iraniane non si ferma

Non è stato un proiettile vagante; chi ha stroncato la giovane vita di Hadith Najafi lo ha fatto con cognizione di causa: sei colpi, al petto, al volto e al collo, sei colpi esplosi con brutale determinazione dai cecchini degli ayatollah.

Volevano assassinarla e volevano sfigurarla, la ragazza appena ventenne diventata in qualche giorno un simbolo della protesta delle donne contro la teocrazia sciita e la sua polizia religiosa. Lei che aveva sfidato il regime con quel gesto semplice e sovversivo, togliersi il velo e guardare negli occhi gli oppressori, i cani da guardia di un potere misogino e impaurito che alla rivolta delle donne risponde con la repressione e la macelleria di piazza. Sono quasi cinquanta le vittime delle forze di sicurezza iraniane da quando è scoppiata la protesta, A innescare la dinamite la morte di un’altra giovane donna di origine curda, Mahsa Amini, arrestata a Teheran dalla polizia la scorsa settimana perché non indossava il velo in modo conforme e poi deceduta in circostanze misteriose. Le autorità hanno reagito in modo goffo e omertoso, parlando di «infarto», circostanza improbabile per una ragazza di 22 anni in ottima salute.

Lo stesso presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi non è riuscito a nascondere l’imbarazzo, ha promesso di fare chiarezza, e un’inchiesta ufficiale.

Ma quando le donne sono scese in piazza in tutto il paese, per la prima volta marciando in testa alle manifestazioni, quando i cortei hanno raggiunto i commissariati, le prefetture, i palazzi del governo gridando «morte alla repubblica islamica!» e bruciando i propri hijab e chador la risposta è stata brutale: lacrimogeni cariche e colpi di arma da fuoco sparati ad altezza d’uomo. Il capo della magistratura iraniana, Gholamhossein Mohseni Ejei fa poi chiarezza: «È necessario intraprendere azioni decisive senza cedimenti contro gli istigatori delle «rivolte». La linea è tracciata con chiarezza dal quotidiano governativo Kayhan che in un’editoriale invita la guida supremja Khamenei a non avere «alcuna pietà nei confronti dei criminali».

Dall’alto invece la cappa ammorbante della censura, con l’accesso ai principali social media, Facebook, Instagram, Whatts’app, Youtube, Twitter e soprattutto Telegram reso inaccessibile dal regime per impedire di far circolare le foto, i video, le testimonianze dirette della repressione. Ma le notizie bucano il muro, anche nei villaggi, dalle province periferiche, e le martiri sono sempre loro, le donne.

Come Minou Majidi, 63 anni, uccisa a colpi di pistola dai corpi antisommossa a Kermanshah allo stesso modo di Hadith Najafi, mentre manifestava liberamente per la strada.

Il torchio si stringe anche sul giornalismo indipendente che aggira i divieti e le restrizioni: la reporter Elaheh Mohammadi che ha avuto un ruolo centrale nella copertura mediatica della morte di Mahsha Amini ( ha intervistato il padre), ha subito l’irruzione della polizia nel suo appartamento e il sequestro di telefono e computer portatile e carta di identità. Non sono risparmiate nemmeno le università, l’avvocato specialista per i diritti umani Mohammad Ali Kamfirouzi, storico difensore di prigionieri politici, ha denunciato centinaia di arresti tra gli studenti in tutti gli atenei dell’Iran, da sempre roccaforti dell’opposizione, Attorno alla protesta si coagula anche il consenso di intellettuali, attori, sportivi e vari personaggi dello star system iraniano, persino figure apolitiche e solitamente indulgenti verso il regime come l’ex capitano della nazionale di calcio Ali Karimi, che sul suo account instagram ha pubblicato foto e video delle violenze della polizia, chiedendo «giustizia per le nostre figlie».

Uccisioni, arresti e censura non sono comunque riusciti a piegare la protesta: ancora ieri notte le strade delle principali città iraniane erano piene di donne e di giovani che si scontravano con le forze dell’ordine mettendo a rischio la propria vita. E tra gli ambienti più riformisti del governo c’è già chi pensa a un compromesso a una concessione per calmare le piazze come ad esempio una legge che renda il velo non più obbligatorio. Chissà se basterà.