Le teorie complottiste che deformano la lettura di alcuni episodi chiave della storia italiana nascono a destra, in particolare nel clima ideologico del fascismo e del nazismo. Il primo a subire gli effetti di quest’arma politica fu Antonio Gramsci, durante un intervento in Parlamento contro la legge fascista che metteva al bando la massoneria. Nel corso del dibattito, Mussolini lo attaccò direttamente, accusando lui e giornali come L’Unità di essere finanziati da grandi gruppi capitalisti: i “poteri forti” che, nell’ombra, avrebbero cercato di sabotare la “rivoluzione fascista”. Oggi il quadro si è ribaltato. Dopo le destre, è da oltre venticinque anni che la sinistra non solo non riesce a contrastare certi deliri complottisti, ma finisce per legittimarli e sostenerli. Lo fa soprattutto alimentando tesi dietrologiche sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

È anche così che certi cortocircuiti prendono forma. Il deputato dem Giuseppe Provenzano, rispondendo al direttore de Il Dubbio, cita una frase attribuita a Paolo Borsellino che, purtroppo, non ha una fonte certa. Attenzione: una frase che Borsellino avrà forse davvero pronunciato, ma che non ha nulla a che vedere con tesi dietrologiche. Provenzano, nel tentativo di sostenere che è troppo riduttivo parlare degli appalti per spiegare il legame tra mafia e politica, cita così il giudice ucciso a via D’Amelio: “Mafia e politica sono due poteri che insistono sullo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo!”. Sembra quasi voler evocare la trattativa Stato-mafia. Ma non è così. Basterebbe un solo documento per chiarirlo: l’ultima lettera scritta da Borsellino, il giorno stesso della strage, indirizzata a una professoressa. Il giudice spiega: “Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni), è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale”. E quali sono questi interessi? Borsellino li elenca con chiarezza: “Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio, principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici”. Involontariamente, Provenzano finisce per confermare ciò che intendeva negare: il ruolo centrale della spartizione degli appalti, che vede Cosa Nostra sta al vertice, con politici e multinazionali a ruota. “La centrale unica degli appalti con a capo Riina”, disse Giovanni Falcone alla Commissione Antimafia, nel 1991.

È così che nascono le teorie del complotto: si isolano frasi o episodi fuori contesto, li si incolla ad altri eventi, si tirano in ballo dichiarazioni di pentiti mai riscontrate – e comunque allineate alla narrazione dei pm del momento – ed ecco servita la trama alternativa. A pensarci bene, questo schema era congeniale anche a Riina. Basta riascoltare quanto disse durante il processo sulle stragi continentali: parlò del Castello Utveggio come sede di un complotto dei servizi segreti, accennò all’aereo di Stato che sorvolò Capaci, quasi a voler far credere che si fosse trattato di un bombardamento. Ma Riina era lo stesso che rivendicava attentati e omicidi eccellenti usando sigle terroristiche, di sinistra o di destra a seconda dei tempi, oppure la “Falange Armata” per far ricadere il sospetto sulle istituzioni. La madre di tutta la dietrologia sulle stragi resta Sistemi Criminali, l’inchiesta firmata da Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia, all’epoca pm a Palermo. Archiviato nei primi anni Duemila, continua ancora oggi a circolare, a ispirare suggestioni giudiziarie e a riemergere ciclicamente in inchieste o ricostruzioni come quella della “pista nera”, rilanciata con insistenza dalla trasmissione Report.

Con Sistemi Criminali la matrice politica delle stragi viene fatta risalire a un lavorìo pre-elettorale nel 1993, volto a costruire al Sud una sorta di “lega autonomista”. Un progetto mosso in ambienti poco raccomandabili: circoli massonici legati a Licio Gelli, soggetti sospettati di ’ndrangheta e la vecchia rete di Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie, tornato oggi in auge. Un tentativo simile fu fatto in Sicilia con la lista “Sicilia Libera”, ispirata dietro le quinte da Leoluca Bagarella e composta in pubblico da ex assessori e consiglieri vicini ad ambienti mafiosi. In due occasioni, oggetto dell’inchiesta poi archiviata, si cercò un raccordo in un convegno a Lamezia, ma il progetto si fermò con la nascita di Forza Italia.

Questo emerge dalle testimonianze di numerosi pentiti degli anni 90, che indicano il passaggio dall’autonomismo al sostegno a Berlusconi. Da qui l’ipotesi – mai provata – che Berlusconi abbia usato consapevolmente gli attentati mafiosi a fini politici, forse concordandoli o addirittura commissionandoli tramite intermediari. È, in fondo, l’ipotesi di eterno lavoro delle Procure di Firenze – dove si registra l’assoluta mancanza di prove in merito – e di Caltanissetta che, pur archiviando all’epoca la posizione di Berlusconi, si lascia aperte indagini su possibili “mandanti esterni a Cosa Nostra”. Indagini che ancora oggi sono in voga e lo saranno per sempre. A Palermo, Ingroia e Scarpinato hanno costruito con Sistemi Criminali un mosaico più complesso: la nuova versione della “vera storia d’Italia” rifiutata dai giudici del processo Andreotti. Si tratta della descrizione di una crisi di regime nella quale intervengono, in chiave politica, le diverse consorterie occulte e criminali che hanno segnato la storia nera del nostro Paese, naturalmente con una mafia siciliana ridotta a una semplice banda a disposizione di questo centro occulto. Il tutto a beneficio del nuovo protagonista della scena politica.

Intrigante, una storia avvincente, ma complottismo puro: non c’è alcuna prova e i pm sono i primi a convenirne, chiedendo loro stessi l’archiviazione. Non se ne poteva cavar fuori un serial giudiziario in grado di reggere e, anche ammesso si fosse trovato un giudice disposto ad avallarlo, come scrisse magistralmente Massimo Bordin, “sarebbe sembrato un remake de La Piovra, che nel frattempo aveva chiuso i battenti anche per mancanza di pubblico”. Ma da lì nacque uno stralcio che diede vita al teorema “trattativa”: una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese. Ogni legittima scelta politica, ogni lotta tra correnti all’interno della Democrazia cristiana, atti amministrativi dell’allora Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria o del ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise – in particolare dal reparto speciale dei Carabinieri (Ros) – vengono riletti sotto la lente “trattativista”.

Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, avanza sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole.

Anche quella teoria è crollata miseramente. E allora che si fa? Si torna a Sistemi Criminali, versione gonfiata, con il M5S e il Partito democratico che ne pretendono l’inserimento nella Commissione Antimafia, guidata da Chiara Colosimo. Ritornano così la P2, le logge massoniche, gli eversivi neri, i servizi deviati con donne bionde e fisici da amazzone reclutate per le stragi. La mafia? Ridotta a semplice sfondo, al massimo qualche contadinotto manovrato dall’esterno. E Falcone e Borsellino? Non uccisi perché avevano capito come colpire duramente l’organizzazione mafiosa e i suoi complici politici ed economici, ma soltanto in quanto simboli da eliminare per ragioni oscure.

Una narrazione che offusca la realtà e trasforma le vittime in pedine di teorie costruite più per compiacere certe visioni che per raccontare i fatti. D’altronde, lo stesso Giovanni Falcone, nel corso della sua vita – subendo anche critiche – ha più volte spiegato che per “terzo livello” non intendeva indicare l’esistenza di una dimensione superiore a quella della mafia militare e dei suoi capi, fatta di colletti bianchi in grado di muovere le fila.

Lo ha spiegato anche durante un’audizione al Csm del 15 ottobre 1991, per difendersi proprio dalle accuse mosse tramite esposti a firma dell’avvocato Giuseppe Zupo, dell’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, dell’avvocato Alfredo Galasso e di Carmine Mancuso. Durante quell’audizione, resa pubblica dal Csm qualche anno fa, Giovanni Falcone ci tenne a chiarire che non solo ribadiva l’inesistenza del “terzo livello”, ma aggiunse che non parlarne non era affatto un favore alla classe politica. «Magari ci fosse un terzo livello!», esclamò Falcone. «Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo!», aggiunse. «Ma purtroppo non è così – disse amaramente Falcone –, perché abbiamo rapporti molto intensi, molto ramificati e molto complessi».

Ma allora, Giovanni Falcone, cosa intendeva in realtà per “terzo livello”? Lo ha spiegato benissimo sempre durante quell’audizione, e non c’entra assolutamente nulla con l’idea di una mafia eterodiretta. «Ci sono delitti – illustrò Falcone – che sono quei delitti per cui si è costituita l’organizzazione criminosa (contrabbando di tabacchi, traffico di stupefacenti, ecc.): questi delitti sono del primo livello – chiamiamoli così –, i delitti certi, quelli previsti» . Prosegue: «Poi abbiamo dei delitti eventuali, del secondo livello, cioè che non sono nella finalità dell’organizzazione in quanto tale, ma che vengono, volta per volta, consumati per garantire la prosecuzione dell’attività dell'organizzazione (vedi, per esempio, lo sgarro di un picciotto che provoca la sua uccisione e così via)» . E conclude: «Infine, abbiamo dei delitti che servono per tutelare l'organizzazione nel suo complesso. Ecco, quindi, il delitto di un magistrato, di un uomo politico, ecc. Questi delitti, che non sono né del primo livello, previsti, né del secondo livello, eventuali, li possiamo definire del terzo livello» .

Ecco spiegato il concetto. Falcone, come Borsellino, non ha mai immaginato che esistesse una sorta di consiglio di amministrazione sovraordinato rispetto ai clan, capace di dettare le condizioni delle azioni criminali, quasi fosse una super Spectre. Al contrario, riteneva già Cosa Nostra un’organizzazione perfettamente piramidale, con un gruppo dirigente che contava al proprio interno intelligenze e professionalità tra le più disparate, ben inserite nel circuito politico- economico legale, assoggettate all’unico vincolo possibile: servire gli scopi dell’onorata società.