Cosa ha chiesto Giorgia Meloni a Carlo Nordio giovedì scorso? Poche cose, tutto sommato. Evitare i conflitti con le toghe. Evitare requisitorie divisive, seppur appassionate, come quella pronunciata, una settimana prima, alla Camera sulle intercettazioni. Dare precedenza alla fluidità della macchina giudiziaria e dunque alla digitalizzazione, come spiegato nella nota diffusa subito dopo il vertice. E poi una richiesta impegnativa ma ( dal punto di vista della premier) comprensibile: non mettere sul tavolo ora, in una fase ancora di avviamento dell’esperienza di governo e con il nuovo Csm appena insediato, la separazione delle carriere. Occuparsene sì ma in modo da portare a casa il risultato «entro l’arco della legislatura». Tradotto: il più tardi possibile.

Nordio non ha motivo di entrare in conflitto con la presidente del Consiglio. Tanto più che, a fronte delle richieste, Meloni ha assicurato leale copertura politica al ministro dagli attacchi che comunque verranno, ad esempio non appena entrerà nel vivo la revisione dell’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze, altri punti ammessi tra le priorità. Solo che la disponibilità dell’ex pm di Venezia a rinviare, e non di poco, la separazione delle carriere è clamorosamente neutralizzata dalle iniziative parlamentari. Cioè dalle incursioni degli alleati ( e non solo degli alleati). Ora tra Palazzo Madama e Montecitorio sono in rampa di lancio quattro proposte di legge sul “divorzio” dei giudici dai pm; una di Forza Italia, una del Terzo polo firmata dal vicesegretario di Azione Enrico Costa e due della Lega, depositate da Erika Stefani e Jacopo Morrone, che per non sbagliare hanno “protocollato” un testo alla Camera e uno identico al Senato. Altro che rinvio: è un accerchiamento.

E come farà Nordio a gestire la partita? Sarà costretto ad assumere le vesti del mediatore. Non può fermare il lavoro delle commissioni che si occuperanno della riforma: non le commissioni Giustizia ma quelle preposte agli Affari costituzionali. Dettaglio che fa la differenza: a Montecitorio in particolare, dove c’è un meloniano di rango, Ciro Maschio, a coordinare i lavori sulla giustizia, mentre agli Affari costituzionali dirige le operazioni l’azzurro Nazario Pagano. Che non a caso si è ben guardato dal dilatare i tempi dell’iter: ha fissato per il 2 febbraio il via all’esame delle proposte di legge sulle carriere dei magistrati. Il problema dunque esiste eccome. E in parte vanifica l’intesa Nordio- Meloni. O richiederà quanto meno che si ridefinisca un accordo a un livello politico più alto, e cioè fra la presidente del Consiglio, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

Non sarà semplice. Intanto non sarà certo agevole imporre ai parlamentari un congelamento delle operazioni. Finché sull’ormai famigerato “cronoprogramma” non ci sarà un nuovo patto fra Meloni, il Capitano e il Cavaliere, la commissione di Affari costituzionali di Montecitorio potrebbe trasformarsi nell’arena del conflitto tra i deputati della maggioranza, con gli esponenti di Fratelli d’Italia che potrebbero chiedere di accantonare la riforma sulle carriere dei magistrati in attesa di tempi migliori, e i colleghi del Carroccio e di FI determinati ad andare avanti. Sarebbe il primo effettivo scontro in Parlamento nella coalizione di centrodestra. E riguarderebbe, non casualmente, la giustizia, come avvenuto in quasi tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo.

Altro dettaglio: il possibile corto circuito sulle carriere di giudici e pm è stato abilmente predisposto dal solito spietato Costa, il vicesegretario e responsabile Giustizia del partito di Calenda che ha un talento speciale nell’individuare con chirurgica mira i punti deboli degli altri schieramenti. Ha depositato il testo sulla separazione delle carriere a inizio legislatura: anzi, la sua è stata tra le primissime proposte di legge ricevute dalla presidenza della Camera.

Il suo articolato ricalca fedelmente quello sul quale nel 2017 l’Unione Camere penali raccolse 75mila firme: nella scorsa legislatura, quella riforma costituzionale d’iniziativa popolare s’inabbissò tra i vari cambi di maggioranza, e anche per il sostanziale scetticismo del Pd. In quel testo, a cui l’associazione dei penalisti tiene molto, sono previsti non solo il doppio concorso e il doppio Csm, ma anche l’attribuzione al Parlamento del potere di individuare le priorità nell’esercizio dell’azione penale, con modifica dell’articolo 112 che tuttora impone l’utopistico obbligo di perseguire ogni singolo reato. Si tratta dello snodo sul quale le contestazioni della magistratura diventerebbero più aspre.

Nel testo appena depositato da FI a Montecitorio, e firmato, oltre che dal capogruppo Alessandro Cattaneo, dai deputati Tommaso Calderone, Annarita Patrarca e Pietro Pittalis, non c’è invece l’attribuzione alle Camere della facoltà di individuare una gerarchia fra i reati. Questioni tutt’altro che marginali che d’altra parte sono destinate a passare in secondo piano rispetto al dato politico: sulle carriere dei magistrati non c’è, per ora, un’intesa vera nella maggioranza, quanto meno sulla scelta dei tempi. E stavolta il ministro Nordio rischia di trovarsi a dover sciogliere un intrigo tutto politico tanto più impegnativo per chi, come lui, non è allenato ai bizantinismi.