Con una delibera del 20 novembre scorso l’Unione Camere penali italiane ha proclamato lo stato di agitazione, sottolineando l’esigenza di affrontare senza più tentennamenti alcuni temi molto delicati riguardanti il nuovo processo “disegnato” dalla riforma Cartabia. Contestualmente allo stato di agitazione è stato chiesto un incontro al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ieri ha aperto le porte di via Arenula ai penalisti.

In rappresentanza dell’Ucpi hanno partecipato il presidente Francesco Petrelli, il vicepresidente Domenico Nicolas Balzano e il segretario Rinaldo Romanelli. Dall’altra parte, oltre al guardasigilli, sono intervenuti alla riunione il viceministro Francesco Paolo Sisto, il sottosegretario Andrea Ostellari, il capo dell’ufficio legislativo Antonio Mura, il consigliere giuridico Bartolomeo Romano e il vicecapo di Gabinetto Giusi Bartolozzi. Particolarmente urgenti le questioni legate alle impugnazioni, all’obbligo dell’elezione di domicilio e all’obbligo del mandato specifico successivo alla sentenza di primo grado.

L’Ucpi ha chiesto al ministro già all’inizio di quest’anno di intervenire. Il tempo è scaduto e ora occorre pragmatismo, assicurato, comunque, nell’incontro di ieri durato oltre un’ora e mezza. Nordio ha mostrato grande attenzione rispetto alle questioni poste sul tavolo dall’Unione Camere penali e ribadito la piena condivisione delle criticità denunciate dall’avvocatura, come sottolinea Francesco Petrelli.

Snodo fondamentale la nuova disciplina dell’articolo 581, con i commi 1- ter e 1- quater, del codice di procedura penale, introdotta con la riforma Cartabia, per la quale le Camere penali chiedono un “intervento soppressivo”. L’allarme lanciato dai penalisti è chiaro: l’introduzione dei due commi dell’articolo 581 del codice di rito è avvenuta, come rilevato nello stato di agitazione proclamato a novembre, «con un chiaro e deplorevole intento deflattivo in danno delle categorie di soggetti più deboli sottoposti a procedimento penale, che, spesso privi di stabile domicilio e assistite da un difensore d’ufficio, sono poste nella condizione di non potere accedere ai successivi gradi di giudizio». Una situazione che per le Camere penali determina una «palese ed ingiusta compressione del diritto di difesa».

La riforma penale ha introdotto un sistema per cui è necessario eleggere il domicilio per il secondo grado di giudizio ed è necessario per l’imputato assente, che voglia impugnare, non solo eleggere il domicilio ma anche conferire un mandato specifico al difensore per introdurre l’appello a pena di inammissibilità. Un aspetto formale, come un domicilio eletto o non eletto ad hoc, che determina dunque l’inammissibilità dell’appello e, di conseguenza, l’impossibilità per il giudice di secondo grado di intervenire ed eventualmente ribaltare una sentenza ingiusta di primo grado. «Il tema del mandato conferito per il secondo grado di giudizio – commenta l’avvocato Rinaldo Romanelli - riguarda anche la difesa d’ufficio. Si arriva all’assurdo che il difensore d’ufficio non possa più proporre una impugnazione in appello perché o si fa conferire un mandato ad hoc, e diventa un difensore di fiducia, o non può proporre l’impugnazione».

Le preoccupazioni dell’avvocatura non sono recenti. Vennero già sollevate tre anni fa ( si veda Il Dubbio dell’ 8 ottobre 2020), durante un’audizione sul ddl penale in commissione Giustizia alla Camera. Già in quella occasione l’attuale consigliera segretaria del Cnf Giovanna Ollà, in quel momento coordinatrice della commissione Diritto penale, pose all’attenzione le perplessità e dell’avvocatura rispetto alla previsione di «rendere l’avvocato destinatario di tutte le notifiche successive alla prima, col risultato di snaturarlo in messo notificatore, e di imporgli l’onere di provare l’irreperibilità dell’assistito». I timori più che fondati rispetto a una compressione del diritto di difesa sono ancora attuali e hanno indotto l’Ucpi ad aprire un confronto serrato con il ministero della Giustizia.