Sono quattro i referendum confermativi che si sono tenuti in Italia in 77 anni di storia repubblicana, tutti negli ultimi 25 anni. Il quinto sarà quello a cui sarà sottoposta la riforma delle separazione delle carriere firmata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dopo l’approvazione definitiva attesa domani in Senato.

Il taglio dei parlamentari

Al contrario di quello abrogativo, il referendum confermativo non prevede un quorum minimo per la validità. Fra queste partite referendarie in Italia, sono due in particolare quelle che hanno animato il dibattito politico negli ultimi anni. Nel 2020 è passata la riforma del taglio dei parlamentari, da 945 a 600 membri, voluta dai Cinquestelle, che ha ottenuto il 69,96 dei sì all’epoca del governo Conte II ed è stata applicata a partire dalla XIX legislatura, al via nel 2022.

Oltre al M5S, padre del testo all’insegna dello stop agli sprechi e della lotta alla casta, anche il Pd si è schierato a favore come linea espressa dalla direzione nazionale, anche se il fronte del no ha annoverato alcuni esponenti di spicco dem come Romano Prodi, Walter Veltroni e Rosy Bindi. Il sì è arrivato anche da anche Fratelli d’Italia e dalla Lega, nonostante all’interno del Carroccio e di FdI alcuni big come Giancarlo Giorgetti e Guido Crosetto hanno votato contro. Libertà di coscienza, invece, per Forza Italia e Italia viva, mentre Più Europa e Azione sono stati dalla parte del no. Carlo Calenda sottolineò che la «vera casta è di chi arriva in Parlamento senza competenza».

La riforma Renzi

L’altra sfida referendaria che ha acceso la polemica politica è stata quella del 2016 con la riforma costituzionale di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, che avrebbe previsto la fine del bicameralismo paritario e la nascita del Senato delle autonomie. Alle urne si presentò il 65,5% degli aventi diritto e il no vinse con il 59,1%. Un risultato che spinse l’allora premier Matteo Renzi ad annunciare le dimissioni, assumendosi la responsabilità della sconfitta.

Sul fronte del no in quell’occasione si schierò, in particolare, il M5S. «Ha vinto la democrazia», commentò Beppe Grillo all’esito del voto. Ma tra i referendum confermativi se ne annoverano altri due. Se la riforma del Titolo V della II parte della Costituzione per una maggiore autonomia degli enti locali e una ridefinizione della ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni passò con il 64,2% dei sì, fu invece bocciata dal 61,3% degli italiani che si recarono alle urne la riforma della devolution del governo Berlusconi III.