A protestare contro il “bavaglio” e contro la privacy dell’imputato sono sempre pronti, e lottano insieme, il sindacato delle toghe e quello dei giornalisti. Ma quando, come è capitato ieri a Tortora e oggi a Zuncheddu, si dimostra che l’imputato o il condannato sono stati vittime non di errori ma di accanimento giudiziario, spesso volontario, tutti muti.

Le prime pagine di Repubblica e del Fatto e di Domani non rigurgitano dei commenti di toghe presenti e passate che ci fanno la lezione con tutti i numeri del codice di procedura penale, e la massa dei cronisti giudiziari non si affretta a intervistare i pm che ancora non hanno commentato. Il motivo è uno solo: l’ “errore” giudiziario viene considerato un fatto normale. E, sempre e comunque, solo “errore”. Senza ombra di dubbio. Può capitare. In un’intercettazione scambiare la voce di uno per quella dell’altro, o una parola dialettale per un altro termine, per esempio. O un testimone che scambia una persona per un’altra, magari al buio e nel giorno in cui ha dimenticato gli occhiali. Ci sono poi le prove a discarico che vengono nascoste. Ma l’” errore” più frequente, che capita nelle prime indagini preliminari, il regno dei pm e della polizia giudiziaria, è quello dell’accanimento nella ricerca del colpevole a ogni costo. Per la fretta di dare un capro espiatorio in pasto all’opinione pubblica con la complicità degli amici giornalisti.

Per poter gonfiare il petto davanti ai superiori, e poi ricevere le congratulazioni del Presidente della repubblica e poi medaglie e ambrogini. O anche, e questo è il caso più innocente, perché ci si affeziona a un’idea, a un’ipotesi di cui non si riesce più a liberarsi. Beniamino Zuncheddu è stato vittima un po’ di tutte queste cose. A suo carico un unico indizio, una testimonianza tardiva. Che non ha suscitato mai dubbi in tutti i giudici, togati e non, che hanno, un pezzettino alla volta, destinato Beniamino Zuncheddu al carcere eterno. E neppure in quei pm senza toga che sono troppo spesso i cronisti giudiziari. Eppure sarebbe bastata un po’ di curiosità. Se per esempio il testimone nel primo interrogatorio dice di non essere il grado di riconoscere l’assassino perché aveva una calza da donna sul viso, e poi, dopo 45 giorni di ripetuti incontri sempre con lo stesso poliziotto cambia versione, a qualcuno viene un dubbio? Per esempio la curiosità di controllare i verbali di tutti i vis- à- vis avvenuti tra il teste e il poliziotto? E qualora questi verbali non esistessero, non si raddoppierebbe il dubbio? Soprattutto se quel dito puntato tardivamente contro una persona è l’unica prova a carico di quell’uomo. Beniamino Zuncheddu per l’appunto. Solo nel processo per la revisione si scoprirà che a quel testimone era stata mostrata la foto del “colpevole” prima del riconoscimento. Come era capitato a Pietro Valpreda per la strage di piazza Fontana, qualcuno ancora ricorda? Quando fu fatta vedere al tassista Rolandi la foto di “quello che doveva riconoscere”. Ah, le vecchie care abitudini di questura!

Se dobbiamo fare l’elenco di chi ha poi salvato la vita a Beniamino Zuncheddu, dopo che decine di giudici e di giornalisti hanno tenuto gli occhi chiusi ( non c’era nessun bavaglio contro cui protestare), li dobbiamo contare sulle dita di una mano. Francesca Nanni, procuratore generale di Cagliari, oggi a Milano. Il bravo e pervicace avvocato Mauro Trogu.

La radicale Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna. Gaia Tortora, che ha dato visibilità al caso. E aggiungiamo oggi la proposta del “Dubbio” con l’iniziativa di Francesca Scopelliti che ha chiesto al presidente Mattarella di nominare Beniamino senatore a vita. Un’esagerazione? No, i simboli a volte sono pesanti come montagne anche quando, nell’amnesia generale, possono parere leggeri come piume.

Ma vorrà dire qualcosa il fatto che tra il 1991 e il 2022 siano state risarcite dallo Stato italiano 30.000 persone in seguito a “errori” giudiziari? E che la cifra vada raddoppiata perché ad altrettanti assolti dopo processi o arresti ingiusti il risarcimento non sia stato riconosciuto solo per vizi formali? Le carceri sono piene di innocenti ingiustamente condannati, ha detto Zuncheddu, e noi gli crediamo, almeno in parte. Basterebbe esaminare qualche caso clamoroso, e tralasciando colpevolmente gli altri, per nutrire consistenti dubbi sul corretto funzionamento dei processi. La condanna di Massimiliano Bossetti per la morte di Yara Gambirasio, per esempio. L’unica prova nei suoi confronti, quella del suo dna rilevato sugli indumenti della ragazzina, avrebbe dovuto suscitare fin dal primo processo molti dubbi. E perché non è stato consentito alla difesa dell’imputato di poter ripetere quell’esame, che tra l’altro era stato effettuato in epoca precedente all’individuazione di Bossetti e quindi senza la presenza del difensore e dei consulenti di parte? Pensateci, cari giudici.

Altro capitolo, su cui si stanno aprendo spiragli per la revisione del processo, quello della strage di Erba, con i condannati, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Una vicenda che, dalla parte dell’accusa, è simile a quella di Beniamino Zuncheddu. C’è anche qui, nella veste di testimone, una persona scampata alla strage, Mario Frigerio. Il quale nel primo interrogatorio dice di aver visto uno sconosciuto alto e robusto e con la pelle olivastra come certi nordafricani. E poi, di interrogatorio in interrogatorio, arriva a riconoscere il suo vicino di casa, Olindo Romano. Quel processo è tutto lì, nonostante le apparenze. E anche in questo caso, dobbiamo ai dubbi di un procuratore generale, Cuno Tarfusser, e alla pervicacia di un avvocato, Fabio Schembri, la speranza che si possa ricominciare da capo. Anche perché, almeno in questo caso, alcuni giornalisti non hanno svolto il ruolo di pm senza toga. Sarà sufficiente?

Ogni anno in Italia ci sono sette persone condannate ingiustamente e poi assolte nel processo di revisione. Possono sembrare poche, ma sono tantissime, perché alla verità si arriva in genere dopo dieci o venti o trent’anni di carcere ingiusto e vite distrutte. Ne basterebbe una sola per dire che pesa come una montagna. E che non andrebbe tollerato più.