Quella di Giuseppe Strano, brigadiere dei Carabinieri in pensione, è una storia contorta. E per descriverla bisogna forse partire da metà, ovvero da quando il Tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza interdittiva emessa dal gip di Messina per «violazione del diritto di difesa». «Una cosa mai vista prima nella mia carriera», dice al Dubbio Domenico Albanese, difensore di Strano. Che ora, dopo essere rimasto imbrigliato nelle maglie della giustizia per cinque anni con l’accusa di peculato, imputazione che gli è costata una condanna in primo grado a 4 anni e sei mesi, si è visto finalmente assolvere in appello. Un calvario giudiziario nato per un presunto ammanco di poco più di mille euro, che Strano avrebbe “sottratto” durante la gestione della Foresteria della Caserma “Culqualber” di Messina, dove il brigadiere ha trascorso 38 anni della sua carriera militare.

La foresteria da anni è affidata a ditte private per garantire il servizio bar all’interno della caserma presso il comando provinciale, il riassetto delle camere e per gestire il lido del carabiniere; gestione per la quale la ditta versava all’Arma il 10 per cento degli incassi. Stando al contratto di affidamento, era la società a doversi occupare degli incassi e del rilascio delle ricevute relative ai pernotti in foresteria.

Nella realtà, però, «tali norme contrattuali non venivano affatto osservate dalla Società stessa», si legge nella denuncia presentata da Giuseppe Strano alla procura militare di Napoli. A svolgere il lavoro, infatti, erano ufficialmente l’ex brigadiere e un suo collega, militari che, loro malgrado, svolgevano un’attività lavorativa gratuita e «non rientrante nelle nostre funzioni». I due militari incassavano, per conto della ditta, il denaro versato «dai fruitori delle camere» - militari e magistrati -, occupandosi, poi del «rilascio delle ricevute».

I due, ogni 15 giorni circa, consegnavano poi denaro e ricevute alla ditta, solitamente al domicilio del titolare. In sostanza - si legge nella denuncia di Strano alla procura ordinaria e a quella militare - un lavoro che, per contratto, avrebbe dovuto svolgere un dipendente della ditta, veniva svolto, al contrario, da lui e dal collega, il tutto su disposizione del Comandante Interregionale, che - scrive ancora Strano nella sua denuncia - aveva chiesto «di “dare una mano”» alla ditta, «tenuto conto dell’amicizia che lo legava» al titolare, «persona a lui “cara”». «Superfluo rilevare le ragioni per le quali accettammo continua la querela di Strano posto che a chiederlo era il Comandante Interregionale e tenuto conto che i nostri superiori (compreso il Capo di Stato Maggiore pro tempore), debitamente notiziati dal sottoscritto, non trovarono nulla da ridire, pur sapendo che ciò comportava lo svolgimento di mansioni extra ( non dovute) e per giunta a vantaggio di un privato ( la ditta appaltatrice)».

La ditta, dal canto suo, «non solo non ha mai provveduto a svolgere direttamente tale compito cui era contrattualmente obbligata, ma oltretutto non provvedeva nemmeno a predisporre una modalità di pagamento che consentisse il tracciamento degli incassi». I pagamenti erano sempre in contanti e le ricevute «non avevano alcun valore fiscale, non recando nemmeno il timbro della ditta». Tutto ciò è emerso nel corso del processo a carico di Strano, nato dopo una perquisizione domiciliare - eseguita il 5 aprile 2019 - effettuata in un periodo in cui lo stesso brigadiere mancava da lavoro da quattro mesi, per motivi di salute, periodo durante il quale, dunque, non si era occupato della foresteria, perché ricoverato in ospedale.

«Appare inverosimile che il Tribunale non si sia reso conto che le contestazioni mosse al sottoscritto – fondate o meno – avevano come matrice le ben più gravi violazioni poste in essere sia dalla ditta che dai vertici della Culqualber, tutti consapevoli della illecita esecuzione del contratto e dell’indebito impiego di due militari nella foresteria». E in tutto questo, l’amministrazione militare ha scelto di non costituirsi parte civile nonostante, in teoria, sia stata vittima tanto quanto la ditta privata del presunto reato di peculato.

Strano ha impugnato la condanna, evidenziando, tra l’altro, nel corso del procedimento, la «violazione del diritto di difesa, da parte del Tribunale», «decisioni istruttorie assolutamente opinabili», come si legge nei motivi di gravame. Lunedì la sentenza della Corte d’Appello: è stato lo stesso sostituto procuratore generale Felice Lima a chiedere che venisse accolto il primo motivo di appello della difesa, avente ad oggetto il difetto di giurisdizione. Dopo due ore circa di camera di consiglio, la Corte ha annullato la sentenza di primo grado, rimettendo gli atti alla procura militare di Napoli.