I servizi sociali di Bibbiano e lo psicoterapeuta Claudio Foti non hanno mai scritto nessuna relazione nella quale si affermasse che a violentare la 17enne in cura dal terapeuta fosse il padre. Né mai, in nessun atto, si afferma che tali violenze siano avvenute in presenza della madre. Ma è stata proprio quest’ultima a parlare di tale documento, rivelatosi inesistente, sostenendo che a svelarglielo sono stati i Carabinieri. Il clamoroso particolare è emerso ieri nel corso del processo d’appello a carico di Foti, il fondatore della onlus Hansel & Gretel al quale il gup di Reggio Emilia ha inflitto, a novembre 2021, quattro anni per lesioni gravi e concorso in abuso d’ufficio nel processo ' Angeli& Demoni'. A spiegarlo in aula, davanti ai giudici, è stato il legale dello psicoterapeuta, Luca Bauccio, che ha recuperato il dato dal colloquio l’unico - avuto dalla madre e dalla giovane con la psicologa Rita Rossi, consulente nominata dal pm Valentina Salvi, la stessa che ha diagnosticato, in quell’unico incontro di un’ora, un disturbo di personalità borderline con depressione grave a Paola (nome di fantasia), provocato proprio dalle sedute con Foti. «Alla donna era stato detto dai carabinieri che sarebbe esistita una relazione dei servizi nella quale si affermava che la mamma assisteva agli abusi sessuali del padre sulla minore - ha spiegato il legale -, una circostanza che aveva colpito profondamente la donna, al punto da riferirla in famiglia». Ed è così che lo apprende Paola, rimasta talmente scossa da dirsi confusa e prostrata: «Quello che mi turba - aveva riferito alla dottoressa Rossi - è non sapere la verità». Purtroppo, ha sottolineato Bauccio, «la psicologa non ha tratto da questa affermazione della madre nessuna conseguenza, pur essendo chiaro e incontrovertibile che mai i servizi sociali hanno avanzato una tale accusa. Anche perché altrimenti i servizi avrebbero dovuto chiedere al Tribunale dei minori di sospendere la responsabilità genitoriale anche della madre. Invece ne hanno sempre valorizzato il contributo, così come Foti. Non c’è alcuna relazione in cui si affermi un fatto del genere - ha evidenziato il legale -, ciononostante questo rimane un argomento e probabilmente ha motivato la diffidenza e l’astio delle due donne nei confronti di Foti e dei servizi sociali. Il fatto è falso. Ma né Rossi né la pubblica accusa si sono posti il problema di verificare questa circostanza e di accertare eventualmente le responsabilità».


Bauccio, che ieri ha concluso la sua discussione - le repliche sono previste il 6 giugno -, ha concentrato la propria arringa sulla assenza di una definizione scientifica affidabile degli eventi lesivi attribuiti all’imputato. «In questo processo - ha spiegato il legale - non c’è un’elaborazione sui meccanismi causali che avrebbero prodotto questo evento come conseguenza dell’azione di Foti». A sostegno della sua tesi Bauccio ha portato la giurisprudenza di Cassazione, in particolare la sentenza delle Sezioni Unite Franzese, la sentenza delle Sezioni Unite Ronci e la sentenza Thyssen Krupp, ma soprattutto la sentenza Cozzini, che riprende le linee guida della sentenza Daubert proprio sui criteri da seguire nella valutazione delle prove scientifiche. Tale sentenza stabilisce alcuni paletti: bisogna innanzitutto verificare «se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto di una determinata azione nel determinare lesioni personali o morte di un soggetto» ; in caso di risposta affermativa, «occorrerà determinare se si sia in presenza di legge universale o solo probabilistica in senso statistico» ; nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, «occorrerà chiarire se l’effetto causale si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali». Insomma, «il giudice non è anarchico», ma deve attenersi «al rispetto di un protocollo che pone sempre in evidenza il rapporto con il caso concreto».


L’altra parte della discussione ha riguardato il dolo, argomento rispetto al quale Bauccio si è rifatto alla sentenza Thyssen, «che ha spiegato come non sia un elemento astratto, ma impone una individuazione concreta della volontà dell’agente. Ricostruire la volontà dell’agente - ha aggiunto - significa porsi dalla sua parte e quindi rappresentarsi lo scenario, le sequenze fattuali, la visione delle cose, il senso che alle cose dà l’agente per capire la sua reale volontà. Non un agente astratto, idealizzato, costruito per definizioni, com’è accaduto in questo processo, dove Foti è stato costruito come personaggio demoniaco, infernale, portatore di ogni abuso, di ogni mercantilismo sviluppato sulla pelle di minori indifesi. La visione dell’azione dal punto di vista di chi agisce ha permesso, applicando gli insuperabili criteri della Thyssen, di ricostruire i meccanismi delle sue azioni, le ispirazioni, i processi deliberativi, tutti confluenti nella sua assorbente dimensione di psicoterapeuta. Non c’è il dolo, né intenzionale, né eventuale, né diretto e non c’è una colpa, perché Foti non ha violato alcuna norma preventiva, non ha agito in modo malaccorto, sventato, perché non ha fatto altro che concentrarsi sulle questioni più importanti: l’abuso, l’abbandono, il conflitto familiare. Pretendere di sostituirsi allo psicoterapeuta, imporre un ordine e un metodo - ha concluso -, significa avverare una pretesa ideologica che dovrebbe essere respinta e refrattaria al processo penale».