«Era tutto un lavoro di equipe, Federica Anghinolfi non mi ha mai costretta a scrivere nulla. E con il suo arrivo eravamo più attrezzati: ho constatato una maggiore capacità di intercettare segnali di allarme». Le accuse mosse nel processo Angeli& Demoni, sui presunti affidi illeciti in val d’Enza, continuano a sgretolarsi. E ciò avviene mentre al banco dei testimoni ci sono ancora i testi dell’accusa, che in aula continuano a “correggere” le sommarie informazioni rilasciate più di quattro anni fa ai carabinieri, quando ammettere che tutti erano d’accordo avrebbe potuto significare finire sotto indagine. Al punto che per uno dei testi ascoltati lunedì la Corte è stata costretta a interrompere l’esame, data la natura autoaccusatoria delle dichiarazioni.

La prima a parlare è stata Roberta Chierici, responsabile delle educatrici della cooperativa Creativ, che ha concluso l’esame iniziato la settimana scorsa, evidenziando come dopo gli arresti sui servizi si sia scatenato uno «tsunami». E «tutti avevamo paura di essere indagati», ha dichiarato rispondendo alla domanda dell’avvocata Cinzia Bernini, difensore dell’assistente sociale Annalisa Scalabrini. Parole che lasciano intendere quale fosse lo stato d’animo in quei mesi convulsi, quando assistenti sociali, educatori e psicologi si ritrovarono in caserma, dove furono sottoposti a decine di domande. Domande, ha rimarcato nuovamente Nicola Canestrini, avvocato dell’assistente sociale Francesco Monopoli, di cui non è possibile conoscere la formulazione, dal momento che sui verbali sono state registrate solo le risposte, in numero certamente inferiore alle domande, come confermato da alcuni testi in aula. «La riorganizzazione delle attività degli educatori nel periodo in cui è entrata Anghinolfi», secondo Chierici, aveva consentito «una maggiore capacità di intervento». E Anghinolfi, coordinatrice dei servizi e principale imputata del processo, non ha mai preso decisioni contro altri appartenenti all'équipe, ha aggiunto l’educatrice, anzi: avrebbe «valorizzato la mia attività, il lavoro educativo. Abbiamo sempre condiviso tutto. La collaborazione è stata buona e quando qualcosa non andava, c’era modo di parlarne», ha chiarito su domanda di Oliviero Mazza, difensore insieme a Rossella Ognibene di Anghinolfi.

Canestrini, nel corso dell’esame, ha anche chiesto all’educatrice se rispondesse al vero che il maresciallo Giuseppe Milano, l’investigatore chiave dell’inchiesta, l’avesse chiamata il giorno prima dell’udienza per ricordarle di comparire in aula, circostanza confermata da Chierici. «Di per sé, in uno Stato che funziona, è quello che vorremmo avere tutti, dal momento che è interesse di tutte le parti che il processo si concluda celermente - ha commentato Canestrini -. Il problema è che non ho memoria di altri casi in cui gli uomini della pg, che poi sono gli stessi che hanno interrogato questi testimoni, abbiano fatto una cosa del genere. Gli stessi uomini che poi rimangono in udienza, seduti in prima fila di fronte ai testimoni, rendendo di fatto impossibile riascoltarli per confrontare la loro versione con quella degli altri testi».

Ma il colpo di scena è arrivato con l’assistente sociale Emanuela Dallara, tra le firmatarie della relazione sul bambino segnalato dalla scuola per gli atteggiamenti sessualizzati su se stesso e sui compagni, atteggiamenti, aveva spiegato lo stesso minore agli insegnati, appresi dal fratellastro. Sentita dalla polizia giudiziaria Dallara, all’epoca, riferì che quella relazione - nella quale si definivano «falsamente» (secondo l’accusa) come non collaboranti i genitori del piccolo N. - era stata in qualche modo “ordinata” da Anghinolfi. E ciò per ottenere dal Tribunale dei minori un mandato esplorativo per verificare eventuali abusi da parte del nonno. In aula, però, l’assistente sociale ha negato che si trattasse di scelte imposte, essendo, invece, tutte decisioni condivise in equipe: ci ho messo la firma - ha sostanzialmente dichiarato - perché era quello che sapevo.

La Corte ha dunque interrotto l’esame e la donna, assistita da un avvocato, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. «I servizi - ha commentato Mazza - lavoravano con tutte le componenti - psicologi, Asl, educatori - di comune accordo e condividevano le scelte. Al tempo delle indagini chi diceva queste cose rischiava di finire indagato, quindi si sentiva obbligato a dire che tutto dipendeva da Anghinolfi. La teste, di fatto, si è autoaccusata, perché per l’accusa chi ha condiviso le scelte della mia assistita è un delinquente. Già in fase di indagini l’alternativa era quella». Per Canestrini, «il fatto che il Tribunale abbia sospeso l’esame testimoniale, su una parte verbalizzata dai carabinieri, dimostra che all’epoca i militari hanno fatto male a non fare la stessa cosa».

In aula anche il patrigno di N., che nonostante la decisione del Tribunale di tenere lontani il figliastro e il figlio maggiore aveva portato i due insieme in campeggio. Da qui la decisione dei giudici minorili di allontanare l’uomo anche dagli altri due figli, situazione alla quale Monopoli ha tentato di porre rimedio, sostenendo che una misura così grave non fosse necessaria, tanto da chiedere per iscritto al Tribunale di rivederla. «Su questo caso non c’è stato un allontanamento disposto dai servizi - ha spiegato Canestrini - ma un provvedimento del Tribunale». E Monopoli, accusato di aver trasformato gli allontanamenti in un business assieme alla collega Anghinolfi, tentava in realtà di non far separare due figli dal padre.

Nel corso dell’udienza Mazza ha stigmatizzato la scelta di un quotidiano emiliano di pubblicare le foto di Anghinolfi in aula, nonostante la stessa avesse negato il consenso e nonostante le disposizioni dello stesso Tribunale. «I giornalisti hanno agito ignorando completamente il provvedimento della Corte - ha sottolineato -. Probabilmente faremo una causa civile per danni, ma siamo anche di fronte ad un reato, perché alla luce dell’articolo 650 del codice di procedura penale l’ordinanza del Tribunale è stata disattesa. Si tratta di un fatto sintomatico di questo processo mediatico che è refrattario alle regole del processo reale. È la riprova - ha concluso Mazza - dello scollamento tra le regole del processo penale e le regole del processo mediatico, che rende indifferenti anche al provvedimento di un giudice, oltre che alle richieste delle parti».