Da un lato c’è chi ne chiede l’abrogazione, dall’altro chi ritiene che anche solo ritoccarlo costituirebbe «un illecito di diritto internazionale». Oggetto del contendere l’abuso d’ufficio, le cui proposte di modifica - dall’abrogazione alla circoscrizione - sono attualmente all’esame della Commissione Giustizia, dove ieri si sono svolte le prime audizioni informali. Un “palcoscenico” sul quale il Movimento 5 Stelle, contrario all’abolizione del reato, vuole far sfilare tutti i procuratori generali d’Italia e alcuni magistrati in prima fila come Nino Di Matteo e Raffaele Cantone, richiesta formalizzata da Cafiero de Raho Federico, ex magistrato e oggi in Parlamento con i grillini. Un modo, forse, per contrapporre alla linea prevalente - la modifica della norma - una valanga di obiezioni, riproponendo lo scontro attualmente in atto tra magistratura e Guardasigilli. «Si è reso necessario al fine di acquisire i dati delle procure sul numero delle iscrizioni, delle richieste di rinvio a giudizio, dei rinvio a giudizio e delle sentenze di primo e secondo grado - ha detto al Dubbio Stefania Ascari del M5S -, in quanto le rilevazioni statistiche offerte dal ministero della Giustizia non coprono il 2022 e il 2023, che sono gli anni in cui si può apprezzare la modifica del 2020 sullo stesso reato di abuso d'ufficio». Il presidente della Commissione, Ciro Maschio (FdI) ha preso tempo per scremare l’elenco. «Il problema è anzitutto di metodo: nella scorsa legislatura spesso - anche da parte della maggioranza Pd/5S - le audizioni sono state limitate ad un numero massimo per gruppo - ha spiegato al Dubbio Maschio -. Finora in questa legislatura siamo stati molto disponibili e non è stato contingentato nulla. Ma se vi sono numerose richieste di audizioni anche di profilo tra loro molto simili - ha aggiunto - si cerca di concordare con i richiedenti una selezione delle stesse in un numero congruo, per non appesantire troppo i lavori a discapito dei tanti altri temi sia di maggioranza che di opposizione da trattare nell’agenda settimanale. Si faranno quasi tutte le audizioni, ma con un minimo di selezione. Quelle che non saranno fatte potranno essere trasformate in contributi scritti e quindi potranno comunque essere acquisiti dalla Commissione».
Il no di Davigo
Ad inaugurare le critiche, oggi, l’ex magistrato Piercamillo Davigo, contrario ad ogni ritocco: «Se ci sono tante denunce - ha detto - vuol dire che i cittadini sono furiosi per come viene esercitata l’azione amministrativa. E ricorrono allo strumento penale perché gli altri strumenti – il ricorso in autotutela, al giudice amministrativo o al giudice civile – si rivelano inefficaci». Senza tale reato, dunque, arriverebbero «denunce per altri reati: i cittadini cercheranno altre fattispecie a cui possa essere ricondotto il loro malessere». Insomma, il pericolo paventato anche dalla presidente della Commissione Giustizia al Senato Giulia Bongiorno (Lega), che punta solo ad una lieve modifica. Alla quale Davigo è comunque contrario: l’esistenza dell’articolo 323 del codice penale è vincolato alla Convenzione di Merida e modificare ulteriormente la norma sarebbe, appunto, «un illecito di diritto penale internazionale».
Il libro degli abusi di Azione
Un ragionamento totalmente diverso rispetto a quello di Azione, che ieri, al Senato, ha presentato un dossier con le storie di 150 sindaci ingiustamente indagati o processati per abuso d’ufficio e poi assolti. «Una grande ingiustizia italiana», ha esordito Carlo Calenda, che vuole girare l’Italia per far vedere che non si tratta solo di numeri, ma di vite spesso distrutte. Il leader di Azione ha invitato Nordio ad «una maggiore iniziativa», tenendo fede ai proclami fatti prima di diventare ministro, dal momento che tale reato «determina una paralisi nell’amministrazione pubblica». Perché chi governa - spesso sindaci di piccoli paesi - va messo in condizione «di operare in modo libero, non sotto la minaccia di reati indefiniti o indefinibili», altrimenti «non dobbiamo lamentarci se le cose non vengono fatte». Ad illustrare l’iniziativa è stato Enrico Costa, che in Commissione Giustizia ha proposto la depenalizzazione del reato, prevedendo una sanzione amministrativa che può aggirarsi tra i mille e 15mila euro. «Dobbiamo far uscire dal circuito penalistico questo reato», ha sottolineato, anche se «la cosa migliore sarebbe l’abrogazione», chiesta ad esempio da Forza Italia, che con Pietro Pittalis, ieri, ha chiesto di «fare un passo avanti per tornare ad essere un Paese civile ed efficiente». E per smentire Davigo, Costa ribalta il concetto alla base degli esposti: non il comune cittadino “schifato” dalla politica, ma un uso strumentale della denuncia per fare opposizione. «Tanti sedicenti garantisti, quando siedono in Consiglio comunale – e si trovano all’opposizione – usano l’esposto in procura anziché l’interrogazione. Così facendo sperano che un pm invii un avviso di garanzia al sindaco, del quale sono pronti a reclamare le dimissioni». Il filo conduttore, dunque, «molto spesso è la colpa della politica», che mette in moto la macchia della magistratura. E passando per le conferenze stampa si arriva spesso alla gogna, che a volte devasta la vita di amministratori innocenti. Come Marco Zambuto, ex sindaco di Agrigento che, dimissionario perché indagato per abuso d’ufficio, è stato successivamente assolto, ma impossibilitato a tornare in carica e ieri presente al fianco di Calenda. Ma c’è anche chi è finito sotto indagine per aver consultato i libri nell’archivio storico del Comune, con il semplice fine di fare ricerca per un’opera letteraria. Costa ha ricordato la Commissione istituita ai tempi in cui era ministro per gli Affari regionali, presieduta proprio da Nordio. Obiettivo: studiare il tema dell’abuso d’ufficio e i suoi effetti. La conclusione dell’allora magistrato fu chiara: l’articolo 323 è irreformabile, «perché il problema non è la condanna che non arriva mai, è il fango, l’indagine, l’inchiesta, il processo. Anche solo a modificarlo non cambierebbe niente». Da qui l’invito al governo a mettere mano al codice. «So che Nordio la pensa così - ha concluso Costa -. Mi dicono che la Lega abbia delle resistenze e mi chiedo se non ci sia una contraddizione tra la Lega che lavora al Codice degli appalti in direzione di una sburocratizzazione e per consentire agli amministratori di lavorare con maggiore serenità e la Lega che vuole lasciare tutto così». Anche perché i numeri, ha sottolineato Mariastella Gelmini, sono implacabili: «A fronte di moltissimi fascicoli aperti sono pochissimi i procedimenti conclusi, a dimostrazione che la norma non funziona. Un aspetto rilevante per la vita della singola persona, ma questo è anche un testo che ha un costo sociale che paga la collettività perché induce alla paura della firma». Nessuna patente di impunità, ma «non è accettabile che le persone siano costrette a vedere minata la propria credibilità per una interpretazione della fattispecie di reato generica».