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Millenovecentonovantatre: Bill Clinton si insedia per la prima volta alla Casa Bianca, Jiang Zemin diventa Presidente della Repubblica Popolare Cinese, la Cecoslovacchia cessa di esistere, Rudolph Giuliani è eletto sindaco di New York, Pablo Escobar viene ucciso a Medelin, Bettino Craxi è sommerso di monetine davanti l'Hotel Raphael, i Nirvana incidono il loro ultimo disco (In Utero), Quentin Tarantino realizza Pulp Fiction, Federico Fellini ritira l'Oscar alla carriera, Toni morrison vince il Nobel per la letteratura. Enrico Ruggeri trionfa a Sanremo con Mistero. Intanto al Cremlino furoreggia Boris Eltsin, l'Eliseo assiste al quieto crepuscolo di François Mitterrand, John Major è l'inquilino sbiadito di Downing Street.Il 27 marzo di quell'anno che oggi sembra un lucore lontano, il 16enne Francesco Totti esordisce in Serie A contro il Brescia. A quasi un quarto di secolo di distanza il 40enne Francesco Totti, contro ogni logica, contro ogni previsione è ancora lì, che illumina il piccolo rettangolo di erbetta verde con la varietà del suo talento: lanci, tocchi, passaggi, tiri, cross, sponde, veli, finte, cucchiai, acrobazie, colpi di tacco. E 250 reti segnate nella massima serie; meglio di lui solamente Silvio Piola, ma quello era davvero un altro calcio, un altro mondo.Come un highlander, un'araba fenice che rinasce ciclicamente dalle sue ceneri, il fantasista giallorosso ha fermato la freccia del tempo e oggi ne detiene le chiavi segrete, rimanendo sospeso in una dimensione quasi immortale in cui continua scrivere i capitoli di un libro senza fine. Dicono che questa sarà la sua ultima stagione da professionista, ma Totti, un po' ironico e un po' serio, dice che forse non è detta l'ultima parola, che magari andrà avanti ancora un anno. Fosse per lui, farebbe come il britannico Stanley Matthews che a 41 anni ha conquistato il Pallone d'oro e ha giocato la sua ultima partita nella prima divisione inglese a 50 anni suonati.Centravanti, fantasista, rifinitore, regista, sdoppiandosi, triplicandosi in una danza ubiqua in cui ha ricoperto quasi tutti i ruoli, Totti è diventato il più moderno dei moderni fuoriclasse. Lui incarna l'evoluzione del numero 10, maglia destinata ai sacerdoti del pallone, Pelè, Maradona, Platini, Rivera, Baggio, Zidane, figura in via d'estinzione in un calcio diventato tutto corsa e muscoli che consuma in fretta i suoi idoli. Una sorta di darwinismo al contrario in cui il miglioramento della specie non si distribuisce nel maggior numero di individui secondo i criteri della selezione naturale, ma al contrario si coagula in un unico esemplare destinato poi a sparire per sempre nella lunga notte biologica.In Totti convivono classe cristallina e prestanza atletica, fantasia e realismo, estro e rendimento, la delicatezza di un pallonetto e la brutalità di un tracciante che buca le mani al portiere, l'innato senso del gol e la capacità di far segnare valanghe di reti ai compagni. Quest'ultima caratteristica, la sua visione periferica, la velocità di pensiero, i cosiddetti "occhi dietro la nuca" rappresentano forse la sua qualità più preziosa, ciò che lo rende unico al mondo. Grazie a questo eclettismo è durato più a lungo, molto più a lungo dei suoi illustri predecessori che dopo i 30 anni si sono ritrovati con le pile scariche, mentalmente imbolsiti senza orizzonte e motivazioni.E nessuno come lui è stato capace di dare il batticuore ai propri tifosi; in una città ingenuissima e cialtrona, cinica e umana, radicalmente refrattaria all'idolatria, pronta a gettare nel fango i re a cui aveva messo la corona il giorno prima. Il legame tra Totti e la Roma è qualcosa di carnale e metafisico che non puoi capire se sei nato fuori dal Raccordo anulare, un amore intenso e corrisposto che non ha paragoni nel mondo. Forse solo la relazione tra Napoli e Diego Armando Maradona può ricordarlo, ma el pibe de oro era un salvatore della patria venuto da lontano, Totti è invece una fibra della città eterna, c'è il Colosseo, c'è il Circo Massimo e c'è lui, "il capitano".In campo e fuori non è mai stato un capopopolo, ma un leader silenzioso dalla timidezza carismatica, un capitano minimalista a cui basta una smorfia per trasmettere autostima ai compagni. Negli anni è riuscito a liberarsi dall'abbraccio appiccicoso dei finti amici, da chi lo sfruttava per vivere di luce riflessa, dall'iconografia cialtrona del "pupone", dalla prosopopea farlocca del "gladiatore", restando semplicemente lui, Francesco Totti da Porta Metronia, una bandiera conficcata nella carne viva del tifo romanista. Ma anche un ragazzo semplice, innamorato dei colori giallorossi come quando era un bambino. Uno che per amore di Roma e della Roma ha rinunciato alle offerte stratosferiche dei grandi club europei, convinto che la felicità sia un tesoro nascosto nella routine, che l'assuefazione alla vittoria di una carriera mercenaria non possa sostituire la gioia straordinaria di giocare in una città, dove «uno scudetto ne vale venti vinti altrove», dove la vittoria è un evento raro ma anche un'ebrezza da mille e una notte. No, questa favola non può finire. Non ancora, non qui.