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Avvocato e scrittore, Domenico Tomassetti è il vincitore della prima edizione del “Premio Letteratura per la Giustizia” - il concorso promosso da Dubbio, Cnf e Fai - con il romanzo “Una vita come la tua”, pubblicato da Bertoni Editore. Liberamente ispirato a fatti di cronaca giudiziaria, il libro offre uno spaccato della professione forense vista dal suo interno e da chi, ogni faticoso giorno, cerca di sopravvivere al mondo della (in)giustizia. Ma soprattutto è il racconto del rapporto tra un padre con suo figlio. Andrea Armati ne è il protagonista, che continua a “vivere” e scrivere sulle pagine del Dubbio.
«Che vai a fare a Norimberga? », mi chiede mio figlio Marco che sta facendo un periodo di studio all’Università di Colonia. È partito a maggio, faceva caldo. Sono andato a trovarlo con la macchina piena della sua roba invernale. Ed ora, scarico, riparto per l’Italia.
«Vado a vedere l’Aula 600, quella del Processo» «Perché?» Non so rispondergli. Spero di trovare la risposta in viaggio. In verità una risposta semplice ci sarebbe. Sono solo. Che torno a fare a Roma, prima della riapertura dello studio? Ma non voglio ammetterlo, nemmeno con me stesso.
Non ero mai stato a Norimberga prima. Il navigatore mi porta facilmente in Furtherstrasse. Parcheggio ed entro nell’edificio storico della Corte di Appello. Mentre pago il biglietto e mi consegnano l’audioguida, penso che non sarei dovuto venire. Ho paura della spettacolarizzazione, provo disagio come se fossi venuto a spiare la Storia dal buco della serratura. Potevo leggere di più, studiare come ho sempre fatto, invece di venire fino a qui. Ma non è così, mi sbaglio. I tedeschi hanno fatto i conti con il loro passato e hanno allestito un memoriale sobrio e molto approfondito (anche se un po’ filoamericano) nel quale, attraverso una mostra fotografica commentata in 12 lingue, raccontano quello che è successo nel processo senza quasi mai indulgere in commenti. L’idea te la devi fare da solo, dopo.
Ma è altro quello che elimina ogni timore di trovarsi difronte ad una vuota rappresentazione ad uso e consumo di turisti “guardoni”. Con una scelta orgogliosamente razionale, già negli anni ’60 (quasi contemporaneamente ai primi processi di Fritz Bauer) hanno deciso che nell’aula si tornasse ad amministrare la Giustizia della nuova Repubblica Federale: in quel luogo, nel 1945, un popolo intero ha preso consapevolezza dell’orrore e, nello stesso luogo, cerca di superarlo attraverso il quotidiano esercizio democratico della giurisdizione. Però, quando entri e ti siedi sulle panche destinate al pubblico, il peso della Storia incombe. Non puoi non pensare che proprio lì sono stati processati alcuni dei responsabili della più grande tragedia del XX secolo.
Berlino fu conquistata dai russi il 2 maggio 1945, il 9 maggio la Germania dichiarò la resa incondizionata. Hitler, Himmler e Goebbels erano morti. Alcuni gerarchi nazisti, tra i quali Eichmann, riuscirono a scappare grazie ad insospettabili complicità. Altri – tra i quali Goering, Ribbentrop, Speer – furono catturati. Altissime gerarchie militari - Donitz – si consegnarono spontaneamente agli Alleati. Non pensavano che sarebbero stati processati. Alcuni di loro temevano di essere giustiziati; altri, come il morfinomane Goering, erano convinti che gli americani gli avrebbero permesso di uscire silenziosamente di scena in cambio della rivelazione di chissà quali segreti. Probabilmente nessuno di loro sapeva che Stalin e Roosvelt, prima, e Truman, poi, non volevano esecuzioni sommarie, ma la celebrazione di un processo che mettesse a nudo le atrocità perpetrate dai nazisti e che, attraverso la divulgazione degli atti a mezzo stampa, le facesse conoscere al mondo intero. L’8 agosto 1945 americani, russi, inglesi e francesi – cioè i vincitori della guerra - sottoscrissero la Carta di Londra nella quale, per la prima volta nella Storia, la guerra di aggressione e la sua pianificazione venivano considerate un crimine, veniva definito il concetto di crimine contro l’umanità e si “organizzava” il Tribunale internazionale militare che avrebbe giudicato i criminali nazisti.
La prima udienza si svolse a Berlino il 18 ottobre 1945, ma gli americani pretesero che il processo fosse trasferito a Norimberga: la città delle grandi adunate hitleriane, organizzate da Himmler e filmate da Leni Riefenstahl; ma soprattutto la città in cui furono promulgate le leggi razziali. Norimberga era stata quasi completamente rasa al suolo. Uno dei pochi palazzi ancora in piedi era la Corte di Appello di Furtherstrasse con annesso carcere in cui alloggiare gli imputati evitando quotidiani spostamenti e sempre possibili gesti autolesionistici. Qui – nella stessa Aula in cui, tra meno di un’ora, si discuterà un procedimento iscritto a ruolo nel 2023 - tra il 20 novembre 1945 e il 1° ottobre 1946 fu celebrato il Processo. Nel corso del dibattimento emersero prove inconfutabili sia della pianificazione della guerra, fin dalla presa del potere del nazionalsocialismo, sia soprattutto della Shoah. L’accusa si basò su documenti recuperati dagli americani, principalmente relazioni di servizio delle Einsatzgruppen, su rapporti del governo sovietico e di quello polacco relativi ai campi di sterminio e su testimonianze dirette dei sopravvissuti. Particolarmente sconvolgente furono le testimonianze sul trattamento riservato ai bambini ebrei a Birkenau.
Una deportata ad Auschwitz dichiarò, piangendo, che i neonati di madri ebree venivano uccisi subito dopo essere venuti al mondo, mentre i bambini più grandi, ma non utili (o non più utili in quanto ammalati o sottonutriti) al lavoro, venivano gettati nei forni crematori, saltando il passaggio nelle camere a gas. “In nome di tutte le donne d’Europa divenute madri nei campi di concentramento, chiedo alle madri tedesche: dove sono adesso i nostri bambini?”, gridò la donna, guardando il banco degli imputati. In quel momento “gli imputati abbassarono la testa”. Al termine dell’udienza si udì l’avvocato di Donitz chiedere al suo assistito: “Ma è possibile che nessuno ne sapesse niente?”. Donitz non rispose, limitandosi a scuotere il capo, ma Jodl confermò: “Certo che qualcuno sapeva”.
L’importanza storica del processo di Norimberga è talmente palese da essere innegabile. Nell’Aula 600 il mondo comprese che lo sterminio di sei milioni di ebrei fu, per usare le parole di Hannah Arendt, “un attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della condizione umana senza la quale la stessa parola ’umanità’ si svuoterebbe di ogni significato”.
Eppure, sotto il profilo giuridico, i dubbi sulla correttezza del processo si fecero strada fin dalle sue prime battute. Principalmente due: sull’imparzialità dei giudici (i vincitori processavano i vinti) e sull’inesistenza di una previa norma che permettesse di individuare la responsabilità penale degli imputati (nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali). La prima obiezione era rafforzata dalla indiscutibile circostanza che, tra i quattro giudici, sedevano un russo (nonostante la guerra fu scatenata in seguito alla sottoscrizione del patto Molotov-Ribbentrop di spartizione della Polonia, prontamente eseguito dall’Urss, dopo l’invasione nazista, con l’annessione di metà del territorio polacco) e un americano (a pochi mesi dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki che, causando quasi 150 mila vittime tra la popolazione civile, configurano un crimine di guerra proprio secondo la definizione della coeva Carta di Londra). Kelsen, all’epoca del processo professore a Berkley, condannò “il fatto che il tribunale istituito dall’accordo fosse composto esclusivamente da rappresentanti degli Stati vittoriosi. Non solo i rappresentanti degli Stati vinti, ma anche – ciò che è più importante – rappresentanti degli Stati neutrali sono stati esclusi dall’ufficio Tra gli Stati, i cui rappresentanti erano i giudici e gli accusatori nel giudizio di Norimberga, ve ne era uno che aveva spartito con la Germania il bottino della guerra condotta contro la Polonia”. Persino un giudice del Collegio, il francese Donnedieu de Vabres, affermò che si trattava di “una giurisdizione dei vincitori che si ergono a giudici dei vinti”. Per superare la seconda obiezione, invece, si fece appello alla Carta di Londra, sottoscritta però l’8 agosto 1945, cioè dopo lo svolgimento dei fatti per cui si stava celebrando il processo.
Ancora Kelsen, probabilmente con l’animo lacerato dalla complessità di una Storia che aveva vissuto in prima persona (ebreo austriaco, costretto ad abbandonare l’insegnamento presso l’Università di Colonia nel 1933), ammise che il diritto applicato al processo di Norimberga era stato positivizzato post factum e che l’accordo di Londra aveva senz’altro infranto il principio d’irretroattività, ma giustificò tale forzatura facendo riferimento all’entità degli atti criminali: “Nel caso in cui due postulati di giustizia sono in conflitto l’uno con l’altro, prevale il più alto; e il punire coloro i quali erano moralmente responsabili per il crimine internazionale della seconda guerra mondiale può certamente essere considerato come più importante che osservare la regola che si oppone alle leggi ex post facto”. Posizione certamente comprensibile, ma maggiormente condivisibile se, con i medesimi principi, si fossero processati tutti i criminali di guerra, non solo i vinti giudicati dai vincitori.
Il processo si concluse con la condanna a morte di 12 imputati, tra i quali Goering, Jodl, e Ribbentrop. Furono condannati al carcere a vita Hess e altri due imputati; a pene minori Donitz (10 anni) e Speer (20 anni); tre furono invece assolti von Papen, Schacht e Fritzsche.
Sono ancora seduto sulle panche dell’Aula 600 quando sento toccarmi sula spalla. Un usciere, in un inglese persino più scolastico del mio, mi chiede garbatamente di uscire: sta per cominciare l’udienza di un nuovo processo. Alzo gli occhi e vedo entrare gli avvocati che parlano con le parti. Dopo quasi trent’anni di professione sempre più mi sorprendo della fiducia accordata dagli uomini all’intervento dei tribunali. Non so se gli imputati del processo, che sta per cominciare, siano colpevoli o innocenti. Spero, in cuor mio, che trovino Giustizia, ma so che la verità che uscirà da quell’Aula, scritta in una sentenza, non sarà comunque null’altro che una verità giudiziaria: umana, controvertibile ed insoddisfacente. Delle colpe (morali e politiche) di chi fu processato, nella stessa Aula, quasi 80 anni fa sono invece certo. Perché è una verità storica, sulla cui base la Germania e il mondo intero hanno costruito un’idea di progresso civile e morale che ancora condividiamo. E sono consapevole che parte fondamentale delle prove, che quella verità hanno svelato, sono state raccolte nel processo del ’45.
Ma altrettanto sono certo che quello di Norimberga fu un processo ingiusto e parziale, inquinato da (più o meno elevate) finalità politiche. La storia del Processo di Norimberga racchiude in sé tutto quello che può essere, ma anche tutto quello che non deve essere un processo. Esco dalla Corte di Appello di Furtherstrasse. Fuori piove e sento freddo, per la prima volta in un’estate torrida anche a queste latitudini. Mi squilla il cellulare. «Adesso hai la risposta? Hai capito perché sei andato a vedere l’Aula 600?», mi chiede mio figlio Marco. «Forse», rispondo risalendo in macchina.
Mentre mi allontano penso che ho fatto bene ad andare a vedere l’Aula 600 e sono contento che lì, ancora oggi, si coltivi la più scandalosa ed irriverente utopia del genere umano: amministrare la Giustizia nella consapevolezza che “alle altissime finalità del diritto fanno riscontro le sue limitate possibilità”.
Andrea Armati