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Siamo così giunti all’apice della vicenda, al punto culminante dopo il quale nulla sarà più come prima.In data 11 gennaio 1898, il Consiglio di Guerra, appositamente convocato per giudicare la condotta di Esterhazy, dopo la denuncia presentata a suo carico da Mathieu Dreyfus, clamorosamente, lo assolve, con ciò implicitamente ma definitivamente confermando la colpevolezza di Alfred Dreyfus.La cosa inaccettabile e che fa subito intendere come questo verdetto sia stato dolosamente preordinato, sta nella circostanza che la camera di consiglio è durata soltanto tre minuti – dico tre minuti di orologio – e che la prova documentale della colpevolezza di Esterhazy non è stata neppure presa in considerazione.Ciò significa che questo secondo Consiglio di guerra sapeva già come decidere – cioè come non decidere – ancor prima della udienza e della camera di consiglio: era etero- diretto da coloro che avevano ordinato di assolvere Esterhazy, allo scopo di mettere una pietra tombale su Dreyfus. Zola non può allora che alzare la voce per denunciare questo scandalo, confezionando quello che è stato definito l’atto forse più rivoluzionario del secolo: il J’accuse.Ovviamente, occorre prima denunciare con forza le gravissime nefandezze commesse durante il processo a Dreyfus, anche per cercare di sollevare le coscienze di una opinione pubblica spesso distratta o, peggio, condizionata dalle voci di corridoio e da quelle della stampa popolare che, come abbiamo visto, era tutta schierata contro Dreyfus.Si può condannare un essere umano alla deportazione perpetua sulla scorta di un biglietto di origine molto incerta, tanto che, per esser considerato prova a carico, va corredato da altro documento, il quale, però, essendo segretissimo per ragioni di sicurezza nazionale, non viene mostrato a nessuno, neppure al difensore?Non solo. Ogni cosa viene imputata a Dreyfus: se conosce le lingue; se non le conosce; si turba, allora è prova del delitto; non si turba, allora è prova del suo professionismo delinquenziale… Siamo alla pura follia! Eppure è quello che accaduto.Malgrado ciò – osserva stupito Zola – i protagonisti di queste nefandezze riescono a dormire… Ma non basta. Il colonnello Picquart aveva raggiunto la prova certa della colpevolezza di Esterhazy, attraverso il reperimento di un telegramma a lui indirizzato da un agente straniero, mentre a casa dello stesso era stato reperito materiale propagandistico contro la Francia.Ma Esterhazy “doveva” essere assolto: e lo fu. Non si vuole qui sottrarre la necessaria attenzione con cui si invita illettore a meditare sul celebre scritto di Zola.La seconda parte non è che una sorta di crescendo rossiniano, col quale Zola inchioda ogni soggetto che ebbe parte in questa terribile vicenda alle proprie responsabilità.Zola opera qui, come si accennava prima, una vera e propria demistificazione dell’accusa, smascherando – e per questo è il rivelatore - la persecuzione giudiziaria alla quale era stato sottoposto l’innocente Dreyfus.Egli mostra in tal modo come ogni intellettuale – parola che va usata con parsimonia ed oculatezza– altro non sia che un vero “eretico”, in quanto capace di operare scelte personali e spesso scomode, di contro ad una opinione dominante e tendenzialmente totalizzante.Singolare e degna di nota la consonanza di significato individuabile fra questa vocazione dell’intellettuale a svolgere una funzione oppositiva del potere e la definizione – assai pregnante – che del giurista forniva qualche decennio or sono Salvatore Satta nei suoi indimenticabili Quaderni del diritto e della procedura civile.Per Satta, il giurista è colui che dice di no, colui che sa e ha il coraggio di dire di no a tutti coloro – e sono tanti – vorrebbero che invece dicesse si, collaborando o prestando acquiescenza alle persecuzioni sociali contro inermi innocenti, mistificate dall’involucro giuridico e processuale.Come dire insomma che ogni giurista, per restare fedele al suo ruolo, non può che svolgere una funzione oppositiva del potere, dedicandosi alla demistificazione delle accuse false e persecutorie, così acquisendo la veste di intellettuale; mentre, di converso, ogni intellettuale, destinato ad opporsi ereticamente al potere persecutorio, allo scopo di smascherarlo, non può non prestare attenzione alle vicende giuridiche e processuali della propria epoca, alla loro valenza profondamente umana, morale, politica.E per far questo non occorre la laurea in giurisprudenza. Basta non tenere gli occhi chiusi e farsi guidare dal normale buon senso: Dostoevski, pur studiando da ingegnere, mostrava più sensibilità giuridica e comprensione dei connessi problemi di tanti altri che avessero seguito studi di giurisprudenza, Zola non era che uno scrittore. Non era perciò un esperto di diritto, ma, per non far la fine miseranda di molti esperti di qualcosa - i quali mostrano di saper tutto, ma non capiscono nulla - si rifiutava di chiudere gli occhi.E, peccato ancor più grave, intendeva farsi guidare dal buon senso. In quella società – ma anche nella nostra - come dire di volersi suicidare.