E ora cosa succede? La storica condanna di Donald Trump, la prima per un ex presidente degli Stati Uniti, apre scenari inediti nella politica d’oltreoceano a sei mesi dalle elezioni presidenziali. Il tycoon è stato infatti riconosciuto colpevole di 34 reati nell’ambito del processo Stormy Daniels, l’ex pornostar che avrebbe pagato illecitamente per impedire che rendesse pubblica la loro relazione.

I dodici giurati hanno deciso all’unanimità, che era l’unica condizione per giungere a un verdetto, in caso di giudizio non unanime il processo sarebbe infatti stato da rifare. L’entità della pena non è stata ancora stabilità come da prassi nel sistema giudiziario Usa, verrà annunciata dal giudice Juan Merchan, lo stesso che ha presieduto il processo, il prossimo 11 luglio, tre giorni prima della convention repubblicana. Secondo le leggi dello Stato di New York, per i reati di cui è stato riconosciuto colpevole Trump rischia da sei mesi a quattro anni di carcere. Ma si tratta di un’eventualità concreta?

In teoria sì, ma è altamente improbabile che Merchan faccia sbattere in cella i leader repubblicano, 77enne e fino ad oggi incensurato. Più verosimile che decida per pene alternative, come gli arresti domiciliari o la libertà vigilata. Anche perché, in stato di reclusione, Trump avrebbe comunque diritto alla protezione personale dei servizi segreti come ogni ex presidente, un altro scenario paradossale e mai sperimentato dalla democrazia americana.

Inoltre i suoi avvocati difensori faranno senz’altro ricorso, facendo sospendere la pena per tutta la durata dell’appello in quanto Trump è stato condannato per crimini non violenti e può beneficiare di misure alternative al carcere. I legali hanno trenta giorni di tempo per presentare la domanda e sei mesi per completare l’appello, un tempistica che farebbe slittare il tutto oltre il cinque novembre, data delle elezioni presidenziali.

Già, il voto: se c’è una certezza è che Donald Trump, anche con una condanna penale sulle spalle, può candidarsi alla Casa Bianca e sfidare Joe Biden. Lo indica con chiarezza la costituzione americana, che stabilisce pochi necessari requisiti per poter diventare presidente: bisogna aver compiuto il 35esimo anno di età, essere nati e aver vissuto almeno 14 anni negli Stati Uniti. Punto. In nessun caso una condanna penale impedisce a un cittadino americano di candidarsi alla presidenza. Esiste peraltro un precedente storico, quello di Eugene V. Debs, candidato nel 1920 dal partito socialista Usa mentre stava scontando dieci anni di prigione per aver invitato pubblicamente a disertare la chiamata per la guerra in Europa. Debs fece campagna elettorale da dietro le sbarre ottenendo 900mila voti, circa il 3,5%.

Il discorso è radicalmente diverso in caso di una condanna per insurrezione che chiude le porte a qualsiasi carica pubblica come indica il 14esimo emendamento. È quanto avevano decretato le Corti supreme del Colorado e del Maine lo scorso inverno, escludendo Trump dalla rosa dei candidati presidenziali perché accusato di aver ispirato e organizzato l’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill del 6 gennaio 2001. La sentenza è stata poi rovesciata a marzo dalla Corte suprema federale a maggioranza conservatrice per la quale Trump resta perfettamente candidabile. Come ha precisato il suo avversario Joe Biden: «L’unico modo di liberarci di lui è batterlo nelle urne». C’è, infine, un ultimo scenario, anch’esso senza alcun precedente. Se il tycoon vincerà le elezioni di novembre cosa ne sarà del suo destino giudiziario? Potrebbe, da presidente, concedere una clamorosa grazia a se stesso? Per quanto grottesca, l’ipotesi non è affatto da escludere. Anche qui entra in ballo la costituzione che non dice nulla sul tema e non vieta esplicitamente a un presidente di auto-concedersi la grazia, salvo in caso di impeachment. Proprio perché questa eventualità non viene presa in considerazione si presta a interpretazioni giuridiche contrapposte.