Nel 2023 il numero di esecuzioni nel mondo ha raggiunto un record quasi decennale, e a tirare la macabra voltata è l’Iran degli ayatollah. L’unica nota positiva è che si è ridotto il numero di Paesi che lo scorso anno hanno fatto ricorso al castigo di stato, in tutto 16. È questa, in estrema sintesi, la conclusione del rapporto di Amnesty International sulle condanne a morte e le esecuzioni nel 2023. In tutto, il suo Global Rights Monitor ha registrato su scala mondiale 1.153 esecuzioni, un aumento del 31% - 270 esecuzioni in più - rispetto alle 883 del 2022.

Si tratta del numero più alto mai toccato dal 2015, quando erano state attuate 1.634 esecuzioni; è anche la prima volta dal 2016 - quando ci furono 1.032 esecuzioni - che il totale supera nuovamente le mille unità. Nonostante ciò, secondo la Ong con sede nel Regno Unito, il numero di paesi che hanno effettuato esecuzioni è stato il più basso mai registrato. L’importante aumento del totale globale è principalmente dovuto a un picco nelle esecuzioni in Iran, che da solo ha rappresentato il 74% di tutte le esecuzioni registrate mentre l’Arabia Saudita il 15%, con 172 vittime. Questi due paesi sono stati responsabili dell’ 89% del totale.

Il triste primato dell’Iran

L’Iran detiene il triste primato: un aumento delle esecuzioni del 48%, con un totale di 853 rispetto alle 576 del 2022 e le 314 del 2021. Questo dato è particolarmente evidente per quanto riguarda le esecuzioni per reati legati alla droga, che sono passate da 255 nel 2022 a 481 nel 2023. Le autorità iraniane «hanno intensificato le esecuzioni per reati legati alla droga, segnando un picco allarmante», con la pena che colpisce in modo sproporzionato le comunità emarginate, ha detto Agnes Callamard, responsabile globale di Amnesty.

Anche lo Yemen non scherza...

Segnale negativo anche da un altro paese mediorientale, lo Yemen, dove è quasi quadruplicato il numero delle esecuzioni, passato da quattro a 15. Aumenti delle esecuzioni anche in Somalia, dove sono passate da sei nel 2022 a 38 lo scorso anno, una cifra sei volte superiore. Stesso copione negli Stati Uniti, dove sono state eseguite 24 pene capitali lo scorso anno, un aumento del 33% rispetto alle 18 dell’anno precedente. «Un numero selezionato di stati americani ha dimostrato un agghiacciante impegno nei confronti della pena di morte», ha detto Callamard.

Ventitré stati americani hanno abolito completamente la condanna a morte e altri 14 non effettuano esecuzioni da almeno un decennio. In diversi casi, le vittime messe a morte sono state donne, in particolare in Cina - ma il numero preciso non è noto poichè Pechino tiene segreti i dati - 24 in Iran, sei in Arabia Saudita e una a Singapore. Il numero complessivo delle vittime della pena capitale è quindi al di sotto della realtà per l’assenza di «altre migliaia di persone» presumibilmente giustiziate in Cina, Corea del Nord, Vietnam e in altri paesi che non diffondo i dati.

Gli altri stati sulla lista nera delle esecuzioni sono l’Afghanistan, la Siria, lo Stato della Palestina, i cui dati non sono stati diramati o sono mancanti, oltre all’Iraq (16), Egitto ( 8), Bangladesh, Kuwait e Singapore, con cinque in ognuno di questi tre stati. «La discriminazione e l’arbitrarietà intrinseche che caratterizzano l’uso della pena di morte non hanno fatto altro che aggravare le violazioni dei diritti umani dei nostri sistemi di giustizia penale», ha evidenziato Callamard.

Unica nota incoraggiante è il fatto che le esecuzioni siano state attuate in soli 16 paesi, il numero più basso mai registrato da quando Amnesty International ha iniziato a monitorare. Non risultano infatti esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sudan del Sud, tutti paesi che avevano invece eseguito condanne a morte nel 2022, quando erano risultati 20 i paesi ad averne eseguite. Il Pakistan ha abrogato la pena di morte per reati legati alla droga e la Malesia ha abolito la pena di morte obbligatoria per una serie di reati. «La piccola minoranza di paesi che insistono nell’usarla deve stare al passo con i tempi e abolire la punizione una volta per tutte», ha auspicato la responsabile di Amnesty.