Il 22 novembre del 1963 Paul Landis era a Dallas e ha assistito di persona all’assassinio di John Fritzgerald Kennedy: si trovava a qualche metro dall’automobile, come agente dei servizi segreti era a qualche metro dall’automobile presidenziale doveva occuparsi della protezione della moglie Jackie.

Dopo sessant’anni Landis ha deciso di rompere il silenzio su uno degli omicidi politici più drammatici del ventesimo secolo, ancora oggi una ferita aperta nel cuore dell’America. Lo ha fatto scrivendo un libro, The Final Witness (Il testimone finale) che da ottobre sarà sugli scaffali delle librerie degli Stati Uniti e di cui ha dato ampie anticipazioni in un’intervista al New York Times: «Il suo racconto riscrive in modo importante la narrazione di uno dei giorni più sconvolgenti della storia americana moderna», afferma il quotidiano della Grande mela. In sostanza Landis smonta le conclusioni della Commissione Warren (1964) secondo cui a sparare contro il presidente fu l’ex marine Lee Harvey Oswald, solo lui e nessun altro: dei tre colpi esplosi da Oswald due raggiunsero Kennedy, l’ultimo, quello fatale gli spappolò il cervello. Il primo tiro, passato alla storia come “la pallottola magica” (o “apllottola unica”), colpì il presidente sulla schiena per uscire dal collo e ferire il governatore del Texas John Bowden Connally che si trovava sulla limousine insieme a Jfk e a Jackie. Un solo proiettile capace di provocare sette ferite, due su Kennedy e cinque sul corpo di Bowden Connally come è scritto sul rapporto della Commissione. Una traiettoria straordinaria che, nel tempo, ha alimentato diversi filoni complottisti per quanto il rapporto l’avesse ritenuta del tutto «plausibile».

Se ancora oggi il 60% degli americani ritiene che dietro l’omicidio ci fosse una cospirazione politica nazionale o internazionale, sconfessando di fatto le deduzioni della Commissione, l’interesse per la tragica morte di Jfk si è a mano a mano affievolito. Almeno fino all’intervista di Landis che ha riacceso i riflettori sulla vicenda. L’ex agente dei servizi, che oggi ha 88 anni, sostiene di aver recuperato personalmente la pallottola che si era conficcata sui sedili posteriori dell’automobile dov’era seduta la coppia presidenziale, il che contraddice la versione ufficiale del proiettile unico. Landis afferma di averla portata all’ospedale di Dallas dove i medici stavano operando Kennedy per lasciarla sulla barellla del presidente mentre per gli investigatori della Commissione Warren il proiettile sarebbe stato ritrovato sulla barella del governatore Bowden Connally. Quel giorno, come tutti i membri della sicurezza, Landis fu interrogato ben due volte, ma nella sua testimonianza non c’è traccia del ritrovamento della pallottola magica. Perché non ne ha parlato? «Ero stanco e sotto choc e in quel momento mi sembrava un dettaglio non rilevante».

In tal senso, a sessant’anni di distanza le sue rivelazioni devono essere prese con estrema cautela perché non possono essere dimostrate e l’unica possibilità che ci offre è credergli sulla parola. Però Landis, uno dei rari testimoni dell’omicidio ancora in vita, non è mai stato un seguace della teoria del complotto, almeno fino al 2014, quando sarebbero affiorati ricordi che smentivano in parte le ricostruzioni ufficiali. Avrebbe atteso altri nove anni prima di parlare perché era convinto di aver commesso un grave errore deponendo la pallottola direttamente sulla barella di Jfk. Allo stesso tempo tutti gli studi scientifici condotti da esperti indipendenti hanno confermato le conclusioni degli investigatori e in tanti anni non è stata trovata alcuna prova dell'esistenza di un secondo cecchino, mentre nessuna teoria alternativa ha mai fatto emergere elementi concreti che smentissero il lavoro della Commissione.